Devo rivedere quel prato, devo rivederlo adesso, qui tra le righe che sono le lamelle di una veneziana, devo rivedere quel prato quasi su un altopiano oltre la strada che lo costeggiava.
Era là che negli anni sessanta s’erano fermate esauste le ruspe, gli escavatori, le benne, che fino a lì avevano sbancato il terreno per costruirci sopra le case, era là che le macchine asfaltatrici avevano steso, fumante, questo nastro di strada parallela ai palazzi.
Oltre la strada il terreno saliva quasi ripido con poco declivio, erboso a maggio, e potevi riconoscere ancora, nelle ondulazioni verticali dell’erba, il segno dei morsi dello scavo che aveva azzannato l’ultimo banco di terra della giornata, dell’anno, del decennio, perché là si fermava il piano regolatore, finiva lì di spianare.
Dopo la scuola, la scuola media, salivamo lassù. Dopo tante salite s’era formato un percorso, come sulle montagne, a zig zag.
Salivammo sul prato, l’erba e la terra attutivano i rumori alle nostre spalle, se ci voltavamo vedevamo i palazzi come un molo che si allontanava, l’altopiano si disincagliava, noi sopra.
Raggiungevamo il punto più appiattito dalle tante partite per giocare a pallone. La palla la portava chi di noi aveva il sacco, il sacco cominciava a sostituire le cartelle, si chiamava così, lo chiamavamo così, lo chiamavamo sacco, aveva un fondo e una bocca.
Una bella corda spessa un dito, un nostro dito di allora, partiva da un punto sulla circonferenza del fondo, saliva, entrava negli anelli della bocca del sacco, scendeva, si congiungeva al capo di partenza però prima passando in un cappio di cuoio, l’annodatura tra i due capi chiudeva il cerchio.
C’era un altro passante nel quale scorreva la corda prima di entrare negli anelli della bocca del sacco, e nel quale scorreva di nuovo uscendo dagli anelli. Spingendo quel passante verso la bocca, gli anelli si raggruppavano e la bocca si chiudeva.
Allentando la stretta, la bocca si apriva.
Si infilavano i libri e i quaderni nel sacco, e anche la penna da recuperare alla cieca, ficcandoci dentro un braccio che c’entrava tutto. Allo stesso modo, ma al contrario, si estraevano: libri, quaderni, la penna trovata alla cieca. Ma la maggior parte di noi usava le cartelle.
L’uso del sacco consentiva che qualcuno portasse in classe il pallone, buono e a cuccia nel sacco durante le lezioni, era ammaestrato. All’aria appariva, uscito dal sacco conosceva la libertà, si prendeva il primo calcio a campanile, come un calcio alla scuola, scendeva dal cielo sul prato.
A quel tempo ero alla vigilia di decidere di scrivere per tutta la vita e di non fare nient’altro.
Facevamo i pali delle porte con le cartelle una sull’altra e qualche giacchetta tolta per correre sciolti.
Ora, si sa, nessuno vuole fare il portiere, ma quel mese di maggio lo facemmo tutti, a rotazione di cinque minuti in cinque minuti. Uno di noi aveva in affitto per quel mese un libretto di donne nude in bianco e nero. Lo teneva nella cartella in mezzo all’Eneide, la cartella che era parte del palo. Così che, mentre gli altri giocavano, il portiere tirava fuori dalla cartella il libretto e guardava le foto.
Non c’erano didascalie, non c’era lo scritto ma era come se ci fosse stampata una lingua a figure che, solo sfogliando il libretto, già l’imparavi. Eravamo autodidatti. Come si dice? Corpo del carattere, si dice. Il carattere era tutto corpo su quelle pagine, e tutta la punteggiatura s’ammassava, si infittiva in peluria, cadeva in grembo.
Quelle donne avevano a occhio tre volte i miei anni, insomma avevano l’età nella quale si è nudi, mi parve di capire. Fino a ora mi pareva complicato credere che la gente vestita fosse anche nuda da qualche parte. Da qualche parte del corpo, dico, ma anche del mondo. Questo da un punto di vista, diciamo, intellettuale.
Dal punto di vista di un ragazzino conoscevo cose più conturbanti, conoscevo la finta di continuare a giocare fino a fare la cosa tremante con le ragazzine della mia età in posti nascosti con poca vista, sottoscala, cantine, gli sgabuzzini, anche il sotto dei tavoli, anche dentro gli armadi nei quali ci si nascondeva in due e non in uno come nelle barzellette e nei film assai più puerili di noi. Tatto e non vista. Come quando si dice: ci vuole tatto. E noi lo volevamo, il tatto tremante.
Insomma, quel mese fummo tutti, un po’ alla volta per uno, portieri, seduti come pellerossa, a gambe conserte, accanto a un palo di cartelle, in atteggiamento assai studioso come gli studiosi nelle biblioteche, con la differenza che essi hanno conserte le braccia. Le partite finivano con alti punteggi.
A quel tempo ebbi come supplente Papa Hemingway, che appunto suppliva alla scuola, perché cominciavo a essere fortunato e fortuna volle che il primo libro rubato fosse verde, verde Medusa, e lo portavo con me nella cartella. Non ero io quello del sacco.
Non bisogna dire tutto, già, devi lasciare che chi legge completi quello che scrivi. O devi lasciarglielo credere. Valeva per il libro dello scrittore americano e per il libretto con le foto in bianco e nero.
E quell’altra uscita: che puoi omettere qualsiasi cosa se sai di ometterla e la parte omessa rafforza la storia e fa sentire alla gente qualcosa di più di quanto capisca. I fatti nudi e crudi, chiari chiari, e le omissioni in penombra, nel posto nascosto, così che hai due cose tutte assieme: la chiarezza e il fornicare. Ecco perché, o Papa, la tua scrittura attrae, però respinge e scansa chi fa il saputo perché non sa fare nient’altro.
Come si dice? I fatti, dategli i fatti, la storia, al pubblico, che ama poi dare le sue versioni dei fatti. Sai una cosa, Papa? Sì, la sai. Il pubblico ama fare cose con le parole, e le sue versioni sono le sue perversioni che egli vorrebbe vedere affiorare sul corpo delle nostre giovani parole. Ma chi legge fa con esse i significati, li cerca con maniacale, quasi maligna, cavillosità, così più si allontana dal fare la cosa tremante.
Lo scrittore americano era capace anche di acrobazie sottili. Per esempio, esce da un posto nel quale ha mangiato e gira a destra, così che non va a sinistra a bere un caffè, cioè non dice tutto ma è tentato di dire quello che non fa, è una lenza costui, anche con l’esca all’amo. Dice che non va a sinistra per dire che va a destra. Altro che significato, è tutta movenza e destrezza. Stai ancora a chiederti cosa significhi destra e sinistra? Cos’è, sei un cantante?
Ma una cosa la dice quasi sempre, quando esce da un locale, un bar, una trattoria italiana, un’osteria spagnola, un bistrot, un ristorante: dice sempre che ha pagato il conto, non dimentica mai di pagare, non lo omette. Nei suoi libri paga sempre il conto, o si assicura che qualcuno lo paghi. Omette ma non dimentica, piazza i suoi colpi d’occhio, e il colpo d’occhio è un conto saldato. Esce a vista dal locale come un pallone all’aperto.
Un’altra cosa non dimentica, di raccogliere sempre con il pane le salsette, l’olio, il rosso sparso dell’uovo, i condimenti rimasti sul fondo del piatto. Che mi significa? Che toglie le tracce del significato, questo mi significa.
Ha molta cura di sé nei suoi libri, si tratta come un bambino. Io, a quel tempo, avevo già smesso di farlo. Lui no, si tratta come un bambino per non capire tutto, lui per primo, è fatto così.
Nel calcio ero un’aluccia sinistra, perché sono ambidestro. Ho il destro potente e il sinistro crossante, anche morbido e velenoso sotto la traversa.
Su quel campo la traversa non c’era, si convalidava la rete a occhio oppure no battezzandola alta, e non c’era neanche la rete. Poi ce ne sarebbero state, traverse, reti che quando entra la palla senti quel frullo come di piccioni allarmati che volano via.
Quando viene bene la pagina pure lo senti, fatto dalle parole quel frullo, quando la pagina viene bene le parole se ne volano via che è un piacere. Le perdi, e direi finalmente. Anche lo scrittore americano lo sa.
Scrivere non è fermare le parole, scrivere veramente è liberarle. Questo lo so io, e aggiungo che non conta quel che significano le frasi, conta il perché, perché le perdi così. Sotto il significato c’è sempre un segreto, è il segreto che lavora. Così che il significato, che è uguale per tutti, sarà diverso per ogni piccione, quindi disperso.
Insomma quegli anni, gli anni. A che stiamo col conto? Al duemila e ventuno? Bene. Sono stato centenario nel venti, sarò centenario nel ventuno, il mio anno di nascita è una festa mobile. Va a capire perché.
Buon anno (e questa è un’espressione del tempo, dell’oggi, di oggi, non omessa, anzi, immagino, assai ossessiva, e chissà che significa).