TipicitàTanti Natali, tutti diversi

Il Natale non esiste, o perlomeno, non ne esiste solo uno, soprattutto dal punto di vista gastronomico. Le ricette attraversano confini e secoli, cambiano nome o si trasformano radicalmente, ma il loro fascino resta sempre lo stesso

Se c’è una cosa che diamo per scontata è il Natale, anche se a guardarlo con occhi un po’ meno italo e cristiano-centrici diventa un affare molto complesso e ricco di sfumature. Il contrario di scontato, per intenderci. Già, perché a sentire la Treccani il Natale è la festa della natività di Gesù Cristo, il giorno celebrativo della sua nascita, ma sfido chiunque a dimostrare che oggi sia solo o prevalentemente quello. In realtà non è nemmeno corretto dire che sia anche altro: è molto altro, a partire da Santa Claus, qui da noi meglio conosciuto come Babbo Natale, che anche nei paesi di più stretta osservanza cristiana ha affiancato se non quasi del tutto soppiantato la figura – più ortodossa – di Gesù Bambino. Quindi, così come il degustatore e critico birrario Kuaska, aka Lorenzo Dabove, dice «la birra non esiste, esistono le birre», noi potremmo sbilanciarci e dichiarare che il Natale non esiste, esistono i Natali.

E se parliamo di cibo, siccome da che mondo è mondo non c’è festa religiosa che non si porti dietro le sue intrecciate tradizioni gastronomiche, i Natali sono il regno del relativismo più spinto. Senza andare molto lontano, basti pensare alle differenze che caratterizzano la tavola del – diciamo – tarantino da quella del cuneese: in mezzo c’è un abisso, anche se più o meno entrambi scarteranno regali e si abbufferanno e sopporteranno parenti difficilmente sopportabili e forse si pentiranno di tutto questo, digitando a ripetizione su google “detox” fin dai primi giorni di gennaio.

Ma le cose si fanno ancora più interessanti se allarghiamo lo sguardo al di fuori dei patrii confini. Partendo dalla Polonia, la cattolicissima Polonia. Se pensavate che il vostro menu natalizio fosse troppo corposo, immaginate ciò che può implicare un pasto che imporrebbe dodici (dodici!) portate, numero che simboleggia i dodici apostoli (lo avevamo detto che era cattolicissima) e i dodici mesi dell’anno. Stiamo parlando della cena della vigilia, fulcro delle celebrazioni natalizie polacche, da cui non possono mancare la zuppa di barbabietole con raviolini, la carpa in gelatina, le aringhe marinate, i pierogi (di nuovo ravioli) con ripieno di funghi porcini e verza, oltre al pan di zenzero e al makowiek, un dolce a base di semi di papavero. Per non parlare dell’oplatek, una cialda bianca benedetta, simile all’ostia dell’eucarestia, con raffigurazioni della natività: viene distribuita durante la cena dal padre di famiglia, un pezzo alla volta.

Spostandoci ancora a est pochi sanno che la Russia non celebra il Natale il 25 dicembre, e non è nemmeno colpa del regime sovietico, che finché è stato in piedi ne ha proibito il festeggiamento: il fatto è che nella maggior parte dei paesi di confessione ortodossa, in quelli cioè che seguono il calendario giuliano, il Natale cade nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, che equivale a quella tra il 24 e il 25 dicembre nel calendario gregoriano. Difficile però disegnare i contorni di un classico menu natalizio russo: il paese è molto grande, e la sua tradizione culinaria è stata duramente appiattita dall’omologazione sovietica e dall’impoverimento generalizzato di prodotti che il regime ha causato, perdendo per strada molti pezzi. Quella che non manca dalla tavola festiva è la vodka, oggi appena insidiata da qualche bottiglia di vino.

Se la Polonia può essere considerato uno degli estremi dello spettro natalizio, quello più attento a una ritualità gastronomica di stampo cristiano, dall’altro lato troviamo tutti quei paesi in cui il cristianesimo non c’è o è assolutamente minoritario. In alcuni di questi, tuttavia, il Natale si è insinuato aprendo una breccia, e lo ha fatto come fenomeno perlopiù commerciale e di diffusione di uno specifico immaginario occidentale. Potremmo parlare di globalizzazione, di colonizzazione culturale, di omologazione natalizia. Fatto sta che se nella maggioranza dei paesi di religione islamica non ve n’è praticamente traccia, se non nelle case private delle minoranze cristiane, in alcune zone dell’Asia un segno considerevole lo ha lasciato, e con risvolti gastronomici considerevoli. In Giappone, per esempio, dal 1974 il Natale è balzato sulla scena grazie a una campagna pubblicitaria di KFC, il fast food del pollo fritto importato dagli Stati Uniti. Motivo per cui in quei giorni moltissimi giapponesi mangiano pollo fritto, e trovare un posto in un KFC, a meno di non aver prenotato con anticipo, spesso può risultare arduo. In Cina, dove solo il 7% della popolazione si professa cristiana, si produce circa il 60% delle decorazioni e degli accessori natalizi del mondo intero. Facile quindi comprendere come il Natale in salsa cinese sia più che altro una questione di natura commerciale, anche se la sua sostanziale sovrapposizione con la festa del Dōngzhì, che celebra il solstizio invernale, ha creato una sorta di ibrido a due teste: fatto sta che è questo il periodo in cui ci si riunisce in famiglia per mangiare tangyuan (polpette di riso glutinoso) nel sud, e jiaozi (ravioli) nel nord. Più complessa la questione coreana. In Corea del Sud, nonostante il 30% della popolazione sia cristiana, il Natale è – di nuovo – un’occasione perlopiù commerciale. A differenza di quanto succede in Cina, però, è una specie di copia di San Valentino: si trascorre perlopiù in coppia, e pur non esistendo un tipico cibo per la ricorrenza, si consumano tonnellate di torte con decorazioni natalizie. Più semplice, si fa per dire, la vita in Corea del Nord: laggiù il Natale non esiste, a meno che non vogliate considerare Natale i festeggiamenti per la natività di Kim Jong Il, padre dell’attuale leader Kim Jong Un. In tal caso bisogna aspettare il 16 febbraio e, probabilmente, armarsi di kimchi.

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