La complicata preistoria dell’Unione europea si svolse non tanto in conformità a un disegno strategico, quanto attraverso improvvisati incrementi e aggiustamenti sotto lo stimolo di eventi in larga misura imprevedibili. La crescita esponenziale di un’organizzazione labirintica e la complessità degli accordi economici (si pensi al caso, particolarmente vistoso, dei sussidi agli agricoltori) si sono dimostrate fonti di controversie; e i timori circa i sempre più ambiziosi progetti di costruire uno Stato sovranazionale hanno dato luogo a molte critiche e a una crescente animosità. Ma quali che fossero i loro difetti, i loro errori e le loro debolezze, prima la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e poi la Comunità Economica Europea non soltanto hanno fornito l’indispensabile cornice istituzionale all’espansione della prosperità − la quale a sua volta è stata alla base della stabilità politica − ma hanno altresì (un punto cruciale) gettato le fondamenta di una pace duratura cementando i legami d’amicizia tra Francia e Germania, e rimuovendo così la micidiale ostilità che aveva avuto una parte non piccola nella genesi delle due guerre mondiali.
Parallelamente al procedere dell’integrazione europea con l’inclusione della Grecia, del Portogallo e della Spagna, tutti e tre ex Stati dittatoriali, e in seguito dei paesi che fino al 1990 erano stati al di là della Cortina di Ferro, l’Unione Europea ha ampliato l’area dei princìpi democratici, della sovranità della legge e del quadro istituzionale che presiede alla cooperazione internazionale, la quale ora comprende una gran parte dell’Europa meridionale, centrale e orientale. Per i paesi di quelle regioni, che dopo esser stati a lungo tra i più poveri in Europa sperimentavano adesso un sostanziale miglioramento delle loro condizioni materiali, e che dopo avere subito per decenni regimi dittatoriali erano adesso in grado di dare vita a democrazie pluraliste, tutto questo significava un progresso gigantesco.
Una cosa l’Unione Europea non ha saputo realizzare: il senso autentico di un’identità europea. Per un continente che conta una quarantina di paesi − ciascuno con un proprio senso d’identità, una propria cultura e una propria storia − e più di sessanta lingue, è un fallimento che ha ben poco di sorprendente. Forse alcuni idealisti in seno all’Unione Europea sono rimasti delusi. Ma la verità è che il necrologio dello Stato nazionale era stato scritto prima del tempo. La Comunità Europea, costruita sul pragmatismo economico più che sull’idealismo politico (anche se per un certo tempo i due erano parsi procedere di pari passo), ebbe per effetto, come Alan Milward aveva persuasivamente argomentato, non la scomparsa, ma «il salvataggio dello Stato nazionale».
L’identità nazionale continuava a prevalere sull’identità europea, comunque la si volesse intendere; e si può ragionevolmente sostenere che negli ultimi decenni si è piuttosto rafforzata che indebolita. Va tuttavia sottolineato un punto cruciale: il nazionalismo sciovinista, con la sua pericolosa carica aggressiva, che aveva causato due guerre mondiali, è oggi praticamente inesistente. Esso è stato contrastato, e diluito, dalla graduale intensificazione della cooperazione transnazionale e della conseguente interdipendenza tra gli Stati nazionali.
Se il senso di un’identità europea è rimasto in gran parte un’idea e un’aspirazione, e non si è trasformato in realtà, ha però acquisito una sorta di contenuto politico. Agli occhi della maggior parte dei suoi cittadini, l’«Europa» ha finito per identificarsi sostanzialmente (in positivo o in negativo) con l’Unione Europea.
L’«Europa» designa i paesi dell’UE in quanto comunità di nazioni legate insieme da una molteplicità di fili, distinguendoli da quelli che nel continente europeo − principalmente la Russia e gli ex paesi membri del’Unione Sovietica − ne restano fuori. Questa «Europa» non è l’«Europa delle patrie» preferita da Charles de Gaulle (e altri), e nemmeno l’entità sovranazionale associata al nome di Jacques Delors. È piuttosto un’entità peculiare situata in qualche punto tra l’una e l’altra. C’è chi continua a guardare a un’«Europa» in continua espansione destinata in un futuro utopico a trasformarsi in uno Stato federale europeo. Altri (il cui numero cresce) guardano all’«Europa» con distacco, e perfino con ostilità, come a una realtà straniera che intralcia la sovranità e l’integrità degli Stati nazionali.
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Qualunque tentativo di creare un’effettiva identità europea sembra destinato a urtare contro ostacoli insuperabili. Il declino del sentimento religioso e la crescita di minoranze immigrate significano che l’Europa non può più essere identificata con il cristianesimo (che è stato comunque per secoli un fattore di divisione più che di un’autentica unione). Anche la storia dividerà più che unire. La società multiculturale fa sì che l’Europa non abbia una lettura della storia che sia comune a tutti i suoi popoli. Va peraltro osservato che non c’è mai stata una qualsivoglia lettura storica (o mitologia) europea. Lettura storica o mitologia, è sempre stata nazionale, e anzi di solito soggetta a contestazione da parte di questo o quel settore della popolazione, come mostra vividamente la perdurante, profondamente radicata eredità della guerra civile spagnola dopo più di ottant’anni dal suo inizio e più di quaranta dalla morte di Franco.
Comunque sia, forse la ricerca di una sfuggente identità europea può attendere, fintantoché i cittadini degli Stati nazionali s’impegnano a difendere nei singoli paesi i fondamentali, comuni princìpi europei di pace, libertà, democrazia pluralista e sovranità della legge; a preservare il livello di benessere materiale che è la precondizione di quest’impegno; e ad agire energicamente per rafforzare ovunque sia possibile i legami transnazionali di cooperazione e amicizia.
Come affronterà l’Europa le grandi sfide che l’attendono? I progressi compiuti in passato sono destinati ad apparire come un episodio in gran parte positivo che ha preceduto il successivo declino? Quanto lontano deve spingersi il progetto di «un’unione sempre più stretta», considerando che negli anni recenti la popolarità dell’Unione Europea è diminuita invece di aumentare? E quelle parti dell’Europa − la Russia e i paesi nella sua sfera, la Turchia e gli Stati balcanici − che sono al di là dei confini dell’UE, e che per secoli non si sono mai pienamente identificate (o non sono state identificate dagli osservatori esterni) con l’«Europa», sono destinate a farsi trascinare dalla corrente ancora più lontano dal «cuore dell’Europa»? Infine (ma non è il punto di minore importanza), è l’Unione Europea in grado di «reinventare» se stessa quanto basta per superare le difficoltà odierne e riaccendere l’entusiasmo di un tempo per il «progetto europeo», oggi in così larga misura evaporato? Si tratta di sfide di grande portata.
Da L’Europa nel vortice – dal 1950 a oggi (Laterza) di Ian Kershaw, 2020, 800 pagine, 35 euro