La prima volta dentro le mura antiche, persi la cognizione dello spazio e del tempo. La Città Vecchia è una specie di teoria del tutto, nel senso che contiene la totalità delle idee, delle forme, e dei colori d’Oriente e Occidente.
Così quando quella domenica mattina mi ritrovai nel frullatore di voci, odori e colori che inizia non appena si oltrepassa la Porta di Giaffa, capii che solo osservando tutto, studiando tutto e cercando il significato di tutto, avrei potuto ripagare il destino per l’occasione che mi era stata concessa.
C’è una bella differenza nel visitare una città straniera per pochi giorni o potercisi fermare più a lungo. Perché ci vuole tempo ad abituarsi ai luoghi, e a stabilirci una relazione.
Ci ero già passato ad Addis Abeba, Bruxelles, Belgrado, Pristina e Kabul, ma a Gerusalemme ebbi la sensazione che sarebbe accaduto tutto più in fretta. Mi sembrava di aver riconosciuto la città vedendola per la prima volta. Come se ci avessi trovato qualcosa che portavo già dentro.
Le pietre, anzitutto, gemelle di quelle romane e ateniesi. Per colore, materia, consistenza, e soprattutto perché sono tutte disposte a strati e quindi sotto ogni pietra ce n’è sempre un’altra. I quartieri cristiano, armeno, ebreo e musulmano poggiano sopra quartieri più antichi.
E i loro palazzi sono fatti delle stesse pietre dei palazzi che c’erano prima. Ciascuna pietra ha il colore del tempo che passa. E dalla somma delle loro patine bianche, rosa, verdognole e gialle si ottiene il colore di Gerusalemme.
Sui lastroni di pietra di certe terrazze arabe ci si camminava scalzi per scaldarsi i piedi, fin dal mattino presto. Lo scoprii il primo giorno per caso, seguendo due monaci per una scala nel suq delle stoffe.
Poi, nei giorni seguenti, imparai che i macigni delle mura perimetrali restavano freddi d’umidità fino a mezzogiorno, che i massi delle chiese e delle moschee erano ruvidi e perfettamente squadrati, che il lastricato del vecchio cardo era formato dalle pietre più lisce.
Nell’oscurità delle cave, la pietra gerosolimitana è tenera, porosa e granulosa, tanto che per inciderla, tagliarla o modellarla è sufficiente un temperino. Poi, una volta esposta al sole e alle intemperie, si ricompatta, diventando dura come il granito.
Me lo spiegò un geologo al Santo Sepolcro, mentre perlustravamo il cunicolo sotto la cappella di sant’Elena. “Ecco di cosa è fatta Gerusalemme,” disse illuminando con la torcia un’enorme protuberanza rocciosa. E poi aggiunse che il giacimento di calcare da cui provengono i massi più antichi della città affiorava poco lontano da lì, tra la Porta di Erode e la Porta di Damasco.
Le chiamano Cave di Salomone e ci si entra da una porticina di ferro alla base di una parete verticale di roccia. Si scendono dei gradoni, lungo una specie di galleria, e poi si cammina fino all’enorme salone di pietra sgocciolante da cui inizia il labirinto di grotte. Si estende per oltre diecimila metri quadrati, un immenso crepaccio sotto il quartiere musulmano.
Il calcare sembra di madreperla, ma nei punti più umidi ha il colore delle foglie marce. Lo chiamano Malekeh, che significa “regale”. Nell’antichità gli venivano attribuite proprietà taumaturgiche, e ci si costruivano i palazzi dei re, i templi dei sacerdoti e le caserme dei soldati.
Le cave furono riscoperte nell’Ottocento, ma sono state studiate solo di recente. Naturalmente nessuno può confermare le tesi avanzate da certi biblisti, e cioè che i blocchi di pietra del secondo Tempio, e forse anche quelli del primo, sarebbero stati estratti proprio da qui.
È invece plausibile che le cave siano state utilizzate da Solimano per la costruzione della sua cin a muraria; e che lo stesso sultano, finiti i lavori, abbia deciso di ostruirne l’entrata con dei macigni. Bisognava evitare che le scoprissero i nemici e che da lì, scavando tunnel, potessero espugnare la città.
Dopo aver visto la Gerusalemme sotterranea, quella alla luce del sole assume un significato più vasto, specie se la si osserva dalla cima del Monte degli Ulivi.
Il belvedere è un balcone in pieno cielo, invaso dai pellegrini fin dalle prime ore dell’alba. La prima volta ci trovai un manipolo di giapponesi che anziché godersi il panorama preferiva fotografare il cammello spelacchiato di un finto beduino. A me invece piaceva guardare di sotto, e ogni volta, invece che in cima a una collinetta, mi sentivo sul tetto del mondo.
Da lassù, la spianata più contesa di tutto il pianeta sembra un tappeto volante pietrificato, i cui merletti di simboli, alberi e sassi sono talmente fitti da far girare la testa. Gli arabi la chiamano Haram ash-Sharif, il Nobile Recinto.
Un condensato di sapienza architettonica che ha preso forma nei primi decenni dopo la conquista del 638. Al centro la moschea di Omar, la Cupola della Roccia, a protezione della “Roccia Sacra” da cui Maometto salì in Paradiso; e all’estremità meridionale la moschea di al-Aqsa, terzo luogo santo dell’Islam dopo La Mecca e Medina.
Si può restare per ore a contemplare l’allineamento di cupole: una dorata, immensa, le altre piccole e nere. La prima è come un sigillo, certifica l’autenticità di Gerusalemme.
Ma le seconde sono ancora più sante, poiché rimandano direttamente al Corano e a una delle sue sure più emblematiche: al-Aqsa vuol dire “la Lontana”, e il riferimento è alla meta del Viaggio notturno di Maometto a cavallo di Buraq, la creatura alata con cui i profeti salivano al Settimo Cielo.
Per gli ebrei si tratta della spianata del Tempio, il Monte Moria dove Salomone costruì la dimora di Dio. Di quel paesaggio biblico non resta nulla, o meglio non c’è più nulla che si possa vedere con gli occhi.
Il Tempio fu raso al suolo dai babilonesi, poi ricostruito, ampliato e distrutto un’altra volta dai Romani. Eppure per gli ebrei resta il luogo più sacro di tutti, quello in cui il divino discese nell’umano. È qui che da qualche parte è nascosta la pietra di fondamento, da cui scaturirono tutte le cose create.
Osservare alle prime luci dell’alba la valle di Josafat, che separa il Monte degli Olivi dalle mura orientali della Città Vecchia, faceva lo stesso effetto di un’allucinazione. Perché era come se i riflessi colorati del mondo si fossero dati appuntamento proprio lì, per salutare l’inizio del giorno. I vermigli, i gialli, i porpora e i viola…
Un fiammeggiare stupefacente, da restare senza fiato. Eppure, con tutti i sepolcri, le lapidi e i cenotafi disseminati tutt’intorno, la valle dovrebbe apparirci cupa e terrificante anziché così invitante e scoppiettante di vita.
da “Tre volte a Gerusalemme”, di Fernando Gentilini, La Nave di Teseo, 2020