Robo-apocalisseCosa serve per evitare che l’intelligenza artificiale si trasformi in un boomerang

In “La trappola della tecnologia”, Carl Benedikt Frey, direttore del programma Future of Work all’università di Oxford, analizza i passaggi storici verso l’automazione e gli effetti sul mercato del lavoro. «La sfida riguarda la sfera politica, non quella tecnologica»

(Unsplash)

Dal punto di vista storico, i peggiori momenti per i lavoratori sono stati quelli caratterizzati dal cambiamento tecnologico di tipo sostitutivo e da una crescita lenta della produttività. Se le applicazioni dell’IA si riveleranno così geniali come alcuni di noi ritengono, dovremmo essere più ottimisti in merito al lungo periodo. Come hanno osservato Daron Acemog ̆lu e Pascual Restrepo, le tecnologie intelligenti sono di gran lunga preferibili a quelle mediocri perché ci rendono più ricchi, creando una maggiore domanda di altri beni e servizi prodotti da esseri umani.

I salari sono aumentati più rapidamente tra il 1995 e il 2000, quando i computer hanno prodotto un breve boom della produttività, rispetto agli anni precedenti e a quelli seguenti. Ma, benché un incremento elevato della produttività sia sempre da preferirsi a una sua crescita modesta, l’aumento dei salari potrebbe non tenere il passo della produttività se la tecnologia fosse esclusivamente di tipo sostitutivo. Il reddito di una parte dei lavoratori potrebbe ridursi nel frattempo, anche creando nuovi lavori in altri settori dell’economia. Ciò è quanto è accaduto negli ultimi anni ed è quanto accaduto anche durante il periodo classico dell’industrializzazione.

Attualmente, il tasso di disoccupazione nazionale negli Stati Uniti è del 4 per cento. Sembra che nonostante l’ascesa dei robot il lavoro non stia per finire. L’automazione si è invece manifestata nei salari in diminuzione per ampie fasce della popolazione, che ha indotto alcuni a uscire dal mercato del lavoro.

La percentuale crescente di lavoratori che non partecipano alla forza lavoro e che non sono conteggiati nei dati sulla disoccupazione è decisamente preoccupante. In Men without Work, Nicholas Eberstadt calcola che, se perdurasse il trend attuale, il 24 percento degli uomini tra i 25 e i 45 anni uscirebbe dal mondo del lavoro entro il 2050. La mancanza di lavoro riguarda in particolare gli uomini che non hanno un titolo universitario, a cui mancano le competenze per competere in un’economia sempre più tecnologica.

Si tratta di coloro che hanno visto diminuire il loro potere d’acquisto a causa dell’automazione e che, non possedendo le competenze necessarie, sono stati esclusi dalle nuove occupazioni con remunerazioni elevate. Se nei prossimi anni la tendenza rimarrà questa, il divario tra i vincenti e i perdenti dell’automazione è destinato ad aumentare. E vi sono buoni motivi per ritenere che ciò accadrà.

Abbiamo visto che la maggior parte delle occupazioni che richiedono la laurea è difficile da automatizzare, mentre molti lavori non qualificati – come quelli dei cassieri, degli addetti alla preparazione degli alimenti, degli operatori dei call center e dei camionisti – sembrano destinati a scomparire, anche se non si riesce a stabilire quando. Vi sono tuttavia anche lavori non qualificati che restano fuori dalla portata dell’IA. Molti servizi alla persona – come per esempio quelli degli istruttori di fitness, dei parrucchieri, dei portieri e dei massaggiatori – che sono incentrati su interazioni sociali complesse non sono a rischio di automazione.

Non sappiamo quali lavori ci riserverà il futuro. All’inizio della Rivoluzione Industriale, nessuno sarebbe stato in grado di prevedere quanti inglesi sarebbero diventati telegrafisti, macchinisti, tecnici ferroviari. Anche oggi, i futurologi non hanno mezzi adeguati per prevedere quali lavori saranno creati dall’intelligenza artificiale. Le statistiche ufficiali sull’occupazione sono sempre arretrate quando si tratta di identificare le nuove occupazioni, che non sono comprese nei dati fintanto che non raggiungono una massa critica in termini di numero di addetti. Ma altre fonti, come i dati di LinkedIn, ci consentono almeno di inquadrare i lavori emergenti. Tra questi vi sono quelli degli esperti di machine learning, architetti dei big data, data scientist, esperti di marketing digitale e programmatori di Android. Ma troviamo anche gli insegnanti di Zumba e gli allenatori di Beachbody.

In un mondo che diventa sempre più tecnologico è improbabile che i benefici di un investimento sulle competenze vadano scomparendo ed è invece probabile che aumentino. Come per i computer, sembra che l’IA riuscirà a creare nuovi lavori qualificati, al contempo generando una maggiore domanda per i lavori nel settore dei servizi alla persona che restano difficili da automatizzare. Come si è visto, molta parte della creazione di lavoro degli ultimi anni si basa sul cosiddetto moltiplicatore dell’occupazione. I computer hanno creato lavoro per gli ingegneri del software e per i programmatori e ciò ha a sua volta alzato la domanda di lavori nei servizi alla persona nei luoghi dove ingegneri e programmatori vivono e lavorano.

Pertanto, dove abbondano i lavori per il personale qualificato, anche i lavoratori non qualificati guadagnano di più. A San Jose, California, gli istruttori di fitness e di aerobica hanno guadagnato in media 57.230 dollari nel 2017. A Flint, Michigan, si sono fermati a una media di 35.550 dollari l’anno. Ovviamente, i paragoni diretti sono complicati da una serie di fattori. È vero che il costo della vita nella Bay Area è più elevato di quello di Flint, ma è altrettanto vero che vi sono più comfort e servizi, gli indici di salute e i servizi pubblici sono migliori e i tassi di criminalità sono più bassi.

L’automazione si rivela dunque una doppia iattura. Dove le macchine hanno sostituito i lavoratori della classe media, ne ha risentito anche la domanda di servizi locali. Il crescente divario tra lavoratori qualificati e non qualificati è amplificato dalla sconcertante differenza tra i luoghi in cui tale fenomeno si manifesta. I miracoli dell’ingegneria del software hanno determinato la prosperità della Bay Area, mentre i lavoratori della Rust Belt hanno subito l’implementazione di nuove tecnologie inventate altrove.

E, in molti posti dove sono diminuiti i lavori della classe media, la contrazione del reddito ha prodotto una serie di problemi sociali come l’aumento della criminalità, crisi matrimoniali e il deterioramento della salute. Come sappiamo, molti di questi problemi sono inversamente correlati al tasso di mobilità intergenerazionale. Essi potrebbero esercitare effetti di lungo periodo sulle comunità e hanno anche conseguenze negative per la generazione successiva. In quest’ottica, non è difficile comprendere il richiamo del populismo: dà voce alla rabbia degli esclusi dal motore della crescita che sono rimasti intrappolati nei luoghi della disperazione.

Il messaggio di questo libro è che abbiamo già vissuto questa situazione. Dovremmo rammentarci le parole di Maxine Berg, che aveva osservato “una domanda di mobilità sia geografica sia occupazionale” associata alla Rivoluzione Industriale. Dovremmo ricordarci che le macchine “significavano, o perlomeno minacciavano, disoccupazione, una disoccupazione che nel caso migliore era transitoria e riguardava alcuni settori dell’economia”. Ma, soprattutto, dovremmo tenere presente che “i cambiamenti concettuali dell’economia politica avvenuti in quel periodo sono anche strettamente connessi alla lotta di classe [che si manifestava] in tutta la gravità che gli economisti attribuivano alle rivolte contro le macchine del 1826 nel Lancashire e alle rivolte contadine del 1830”.

La pausa di Engels giunse infine al termine, arrivarono le tecnologie abilitanti in soccorso, e i lavoratori acquisirono nuove competenze. Nel frattempo tre generazioni di comuni cittadini inglesi avevano subìto un peggioramento della qualità della vita. Oggi, i governi possono per fortuna assumersi maggiori responsabilità per i costi sociali del cambiamento tecnologico. La percentuale crescente di giovani senza lavoro e la costante diminuzione della capacità di guadagno di coloro che hanno solo un diploma di scuola superiore suggeriscono che dobbiamo valutare attentamente le dinamiche di breve periodo alimentate dal progresso dell’IA. Se la torta diventa più grande grazie all’incremento delle produttività, tutti, in linea di principio, dovrebbero trarne dei vantaggi. La sfida riguarda la sfera politica, non quella della tecnologia. Visto che da un lato l’IA ha enormi potenzialità per renderci più ricchi e dall’altro per eliminare i posti di lavoro, i governi dovranno gestire con cura il breve periodo, che durante il periodo classico dell’industrializzazione ha significato per molti l’intera esistenza.

Come ha affermato l’ex ministro del tesoro Lawrence Summers: “Le certezze sono poche. Ma sarà meglio andare avanti piuttosto che indietro, [che] significa accettare piuttosto che rifiutare il progresso tecnologico […] Questo sarà un importante argomento di discussione che immagino caratterizzerà il dibattito politico nel mondo industriale nei prossimi dieci anni”.

Per evitare la trappola della tecnologia, i governi devono promuovere politiche in grado di rimettere in moto la crescita della produttività e aiutare i lavoratori nello sforzo di adattamento all’automazione che avanza. Per affrontare i costi sociali dell’automazione serviranno riforme sostanziali del sistema educativo, facilitazioni per i trasferimenti delle persone, riduzione delle barriere alla mobilità occupazionale, eliminazione delle restrizioni che favoriscono le divisioni economiche e sociali, sostegno del reddito delle famiglie meno abbienti attraverso detrazioni fiscali, indennità di disoccupazione a chi viene sostituito dalle macchine e maggiori investimenti nell’istruzione per l’infanzia così da mitigare le conseguenze negative per la generazione successiva.

Da La trappola della tecnologia – Capitale, lavoro e potere nell’era dell’automazione”, di Carl Benedikt Frey, Franco Angeli Editore, 474 pagine, 35 euro

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