Se mi avessero detto che, per capire la prima settimana della presidenza Biden, sarebbe stato indispensabile avere una qualche consuetudine con la figura di Massimo D’Alema, avrei pensato a un ritorno di Pippo Chennedy. E invece.
Se siete italiani adulti, vi ricorderete della polemica per le scarpe su misura di Massimo D’Alema. Così antica che erano scarpe in lire: indossa scarpe da un milione, come l’assegno di Bonaventura, perdindirindina, potrà mai essere di sinistra? L’altro giorno il New York Times, proseguendo la tradizione per cui la politica americana è quella italiana in sedicesimo (e in ritardo), ha ben pensato d’occuparsi del Rolex di Joe Biden. (D’Alema fu oggetto di polemica anche per la barca a vela con cui andava in vacanza; in sedicesimo, la stampa americana è molto preoccupata per la Peloton di Biden, una cyclette relativamente costosa).
Non è stato però per le scarpe – scusate: volevo dire per il Rolex – che ho pensato a Massimo D’Alema, in questa prima settimana in cui Biden ha presieduto al disturbo post trumpatico degli americani. È stato per le ordinanze.
Sette giorni fa, il nuovo presidente degli Stati Uniti firmava le sue prime ordinanze. Tra le quali: il rientro negli accordi sul clima di Parigi, il dovere di farti entrare negli spogliatoi femminili alle partite se hai il pisello ma ti percepisci femmina, la sospensione dei debiti universitari.
Sono scelte di sinistra? È più di sinistra difendere la sicurezza delle donne biologiche negli spogliatoi della palestra, o difendere il diritto degli uomini biologici a percepirsi donne e quindi a frequentare gli spogliatoi femminili? Il lavoro degli operai nelle fabbriche d’automobili o la qualità dell’aria? Il diritto a non avere ansie di chi è abbastanza fortunato da aver frequentato l’università, o il diritto a non vedersi aumentare le tasse di chi non ha intenzione di finire come l’Italia, coi costi dell’istruzione universitaria che pesano sulla fiscalità generale?
L’impostazione delle domande è sbagliata: nel postmoderno, destra e sinistra sono categorie inadeguate. Conta solo essere presentabili, essere parte del Club dei giusti, essere accolti nel novero di coloro che fanno scelte spendibili sui social. Specie se ad averti eletto sono proprio loro: i presentabili.
Quelli che si sono fatti prestare cinquantamila dollari l’anno per frequentare Harvard, e ritengono una vessazione doverli restituire. Quelli per i quali sei fascista se non ti sembra un’ottima idea, se tuo figlio un giorno crede d’essere Batman e quello dopo d’essere una bambina, fargli prescrivere degli ormoni acciocché egli compia la sua scelta identitaria in un’età in cui non sa allacciarsi le scarpe. Quelli che vanno con la macchina elettrica (o il monopattino) al lavoro che hanno ottenuto con la laurea di Harvard, mica sono camionisti disinteressati ai ghiacciai.
Quelli per cui tutto è più importante dell’economia, e – del tutto – la cosa più fondamentale sono i diritti civili. Intesi non come «se uno è gay deve poter fare le stesse cose degli etero senza venire preso a schiaffi o discriminato sul lavoro» e analoghe ovvietà; intesi come «se una con le tette e i tacchi ha deciso di farsi chiamare “lui” e a te viene da ridere, stai compiendo un reato d’odio».
A novembre Biden compie 79 anni. Forse perché è più o meno coetaneo di mio padre, mi viene difficile credere che per lui sia naturale pensare che ognuno abbia diritto a stabilire il proprio genere sessuale. Magari ha strasberghianamente lavorato sulla propria percezione della postmodernità, magari finge così completamente che arriva a fingere di credere davvero che sì, il genere sessuale sia un costrutto sociale.
Ma magari – più probabilmente – chi gli sta intorno ha suggerito che, per sembrare espressione del proprio tempo, fosse bene mettere una trans in un ruolo qualunque; viceministro della salute, ma poteva andar bene ovunque, l’importante è che nei titoli ci possa essere scritto «trans», e che le vestali dell’identitarismo, quelle che quotidianamente lamentano non ci siano trans nei film, nei consigli d’amministrazione, nelle scuole, che loro potessero lamentarsi perché, dopo che abbiamo chiesto la presenza di quella specifica nicchia di sessualità, ora i titoli riducono la persona a una nicchia di sessualità, invece che alla sua storia professionale. Ma tu pensa, chissà com’è successo.
Comunque sia andata con Kamala Harris, in qualunque punto della parabola con cui il cattolico quasi ottantenne simula postmodernità si collochi la scelta d’una vice donna e nera, la buona notizia è che, prima che donna e nera, la signora Harris è determinata e in gamba (lo dimostra nel suo lavoro da tanti di quegli anni che ancora non era di moda essere donna e nera). E, a guardare i social, sembra pronta a essere la Eve Harrington del caso (Eve Harrington era la giovane arrembante che, in “Eva contro Eva”, tentava di scippare la carriera a Margo Channing, ovvero Bette Davis – che in questo caso sarebbe Joe Biden).
L’altro giorno la giovanissima e bravissima cronista politica del New York Olivia Nuzzi ha pubblicato gli impegni del presidente che per quel giorno venivano resi noti alla stampa, e non ho memoria di agende presidenziali precedenti in cui fosse specificato che il presidente pranza con la vice, viene aggiornato sugli sviluppi del tal settore assieme alla vice, eccetera. La quale, nel frattempo, twittava proprie foto mentre faceva giurare una nuova responsabile dell’intelligence, parlava al telefono col capo dell’Organizzazione mondiale della sanità, si preoccupava di rassicurare le piccole imprese. Insomma: faceva la presidente, avendo la fortuna di gameti e melanina che silenziosamente la accreditano come postmoderna senza che si occupi di stronzate.
Cosa c’entra D’Alema, si chiederanno i meno smemorati tra i miei piccoli lettori. Mentre succedeva tutto questo, Repubblica pubblicava una conversazione tra Massimo D’Alema ed Ezio Mauro, tratta da un documentario sui cent’anni del Pci. A un certo punto Mauro gli chiede cosa definisca oggi la sinistra. E D’Alema dà una risposta da vecchio comunista, gente che tra i diritti dell’operaio a un salario equo e quelli del laureato di Harvard a scegliersi i pronomi non ha mai avuto dubbi: «L’idea socialista, creata dal lavoro, rimane l’espressione più forte. So che non contiene il tema della salvezza del pianeta, della liberazione femminile, ma è la parola della storia». Nessuno si senta offeso, avrebbe detto quella canzonetta.