Come mi manchi, Donald. Lascia che te ne conti i modi.
Mi manchi fino alla profondità, alla larghezza e all’altezza, che la mia anima può raggiungere non tanto quando partecipa invisibile agli scopi dell’esistenza e della grazia ideale, ma quando mi rendo conto che sei il Tom Cruise che ci possiamo permettere.
Molti anni fa, alle conferenze stampa per presentare “Vanilla Sky”, Tom Cruise arrivava coi Beach Boys sparati a tutto volume: un uomo che sa fare un’entrata.
Tu, che non sai fare un’uscita (un commentatore della Cnn ieri ha detto che prima Trump era sinonimo di «essere ricco», e ora è sinonimo di «non saper perdere»), sai però organizzarne la colonna sonora. L’elicottero atterra con “Gloria”, ed è subito Tom Cruise (chissà se Umberto Tozzi prenderà di nuovo le distanze).
Mi manchi così tanto, Donald, che quasi mi manca anche quella tua figlia che neppure tu ti ricordi d’avere, Tiffany. Quella che l’altroieri ha annunciato il proprio fidanzamento nell’ultima giornata presidenziale prima che tu scappassi alle otto di mattina come quelli con lo sfratto esecutivo sorpresi in mutande dall’ufficiale giudiziario.
Quella che ci teneva ad avere la foto di fidanzamento sotto il portico della Casa Bianca, come tu ci tenevi ad andartene sull’Air Force One e col titolo di presidente (da protocollo, dopo mezzogiorno avresti dovuto chiedere, da ex presidente, un volo di Stato a Biden: figuriamoci, tu così pubblicità dei dopobarba anni Ottanta, tu che non devi chiedere mai).
Mi manchi così tanto che ieri guardavo Pence, che faceva alla cerimonia d’insediamento quell’atto di presenza che tu avevi rifiutato di compiere. Dispettoso e poco dignitoso, secondo il sentire comune; lesivo dei fondamentali cerimoniali, secondo i commentatori televisivi d’un paese tutto rituali e mani sui cuori, t’eri rifiutato di presenziare.
Guardavo Pence che, come fanno gli adulti, era andato alla cerimonia con cui uno che non gli è granché simpatico diventava presidente, e pensavo: quindi sono questi qui, gli adulti razionali. Gente che chiama «mamma» la moglie (lo fa anche il marito di Elisabetta Franchi, eh, mica solo i picchiatelli religiosi americani).
Mi manchi così tanto che, mentre una poetessa che gesticolava come una hostess che indichi le uscite di sicurezza recitava dei versi sconclusionati sull’America, su Biden, sulla razza, la speranza, la vita l’amore l’arte, io pensavo che al gesticolare della poetessa tu avresti di certo fatto il verso, e lì invece facevano tutti i commossi, gli adulti, prendevano tutto tantissimo sul serio, e saranno quattro anni da morire di noia, di che cosa parleremo ora che non ci sei più tu di cui sparlare?
Mi manchi talmente tanto che nel pomeriggio, all’interminabile cerimonia d’insediamento di quello dopo, pensavo a quello prima, sempre senza mascherina, pure la mattina andandosene sfrattato: le telecamere riprendevano i parenti che ti attendevano sulla pista, Ivanka senza mascherina, Jared senza mascherina, l’unico con mascherina era un loro bambino un metro più in basso, forse avevano paura che alitando infettasse le loro ginocchia.
Ci pensavo perché alla cerimonia dei buoni, invece, avevano tutti la loro brava mascherina, erano persino rari i nasi fuori (Bill Clinton, devi sempre farti riconoscere); ma poi arrivavano al microfono e tutti, dalla Klobuchar in giù, se la levavano per sputacchiare ben bene nella stessa spugna in cui sputacchiavano tutti gli altri, e forse la ragione per cui i contagi non diminuiscono è che i buoni son scemi almeno quanto i cattivi.
Mi sei mancato ogni volta che alla Cnn hanno ribadito che ti eri comportato molto male, sempre precisando «dopo che ha perso le elezioni» (prima, invece, eri Churchill); mi sei mancato mentre, neanche fossero Fantozzi col direttore, dicevano che straordinaria classe avesse avuto Biden nell’aspettare il tuo decollo per uscire per andare a messa, non rubandoti le telecamere; mi sei mancato mentre mi disperavo per l’imminente mancanza d’argomenti di conversazione, e amici crudeli mi rispondevano «Possiamo sempre parlare di Renzi».
Mi sei mancato quando Spike Lee ha instagrammato un’immagine in cui, sotto la foto di Biden e Harris, alla scritta «history», storia, seguiva quella herstory, perché l’americano di buone intenzioni è così ferrato in lingua inglese che pensa che history, contenendo le stesse lettere del possessivo maschile his, sia una definizione patriarcale, e quindi ora la chiameremo herstory, col possessivo maschile her, per pari sgrammaticate opportunità.
Soprattutto mi sei mancato quando, in quel Festivalbar dolente che ha scandito la cerimonia, è arrivata Lady Gaga, con la gonna di Biancaneve e la treccia di Barbara Alberti, e ha cantato l’inno, e io ho tardivamente capito che altro che “My Way”, altro che “Billie Jean” (una canzone sul mancato riconoscimento di paternità: sei il più autoironico del mondo, non ti meritavamo), altro che “Gloria”. La canzone giusta per il tuo viale del tramonto è una canzone dei Coldplay che qualche anno fa rifece proprio Gaga.
È quella il cui io narrante si strugge per i tempi in cui comandava: «Mai una parola onesta, eh, ma era quando governavo il mondo».