Gentiluomo del calcioCosì l’impresa della grande Inter sollevò l’umore del giovane Mughini

In “Nuovo dizionario sentimentale” (Marsilio), il giornalista e scrittore ricorda che fu un match europeo, arrivato in chiusura di una giornata storta, a fargli riaccendere la passione

©Publifoto/Lapresse

A metà degli anni sessanta c’è stato un giorno della mia vita di studente poco più che ventenne in cui tutto stava andando paurosamente storto, non fosse intervenuta la bellezza del calcio a salvarmi.

C’era che nel pomeriggio avevo sostenuto un esame complementare, l’esame di Lingua e letteratura russa, ed ero furibondo dall’averne avuto un ventinove, un voto che ritenevo ingiusto e insufficiente.

Nella facoltà di Lingue e letterature moderne, che era la mia, il corso di studio funzionava così. Sceglievi una lingua straniera fondamentale, quella in cui ti saresti laureato, e per me non poteva non essere il francese, quattro esami in tutto. Sceglievi poi una lingua secondaria, nel caso mio l’inglese, due esami in tutto. Potevi infine scegliere una terza lingua di cui avresti sostenuto un unico esame.

Avevo scelto la lingua e letteratura russa, non che mi sognassi di imparare almeno un po’ quella lingua dannatamente ostica. Solo che era una buona occasione per scorrazzare lungo l’arte e la letteratura di quel Paese fatale del Novecento. Aggiungo che il professore della materia era amico mio e di Carlo Muscetta, il mio adorato maestro di studi di letteratura italiana.

Mi sedetti all’esame, dove avevo di fronte il professore mio amico e al suo fianco il figlio del preside di facoltà che si era gentilmente offerto di assisterlo. Nella parte linguistica inciampai in un paio di errori, nella parte letteraria volai altissimo.

Trattandosi di una materia complementare le mie incertezze sulla lingua erano inezie rispetto all’amore e alla conoscenza che manifestavo per la cultura e la letteratura russa. Quando vidi il ventinove inscritto su un libretto dov’era una nidiata di trenta e trenta e lode, fu come se mi avessero schiaffeggiato in volto.

All’uscita dell’esame chiesi al professore perché mi avesse dato ventinove. Mi disse che nella parte linguistica meritavo un venticinque. «E nella parte letteraria?», gli chiesi. Rifletté un attimo, prima di rispondere che meritavo 40. «E dunque qual è la media tra 25 e 40?», insistetti. A quel punto mi chiese scusa. La realtà era che agli occhi del figlio del preside di facoltà lui non aveva voluto apparire come uno che mi fosse amico. Non l’ho mai più voluto né vedere né salutare.

Ciliegina sulla torta, nello stesso istante in cui uscivo dal colloquio con il professore, mi vedo passare innanzi l’amore biondo che nei miei vent’anni occupava così tanta parte della mia immaginazione. Aveva l’aria di andare di fretta, e dunque mi salutò con un gesto distratto della testa e andò oltre. Ovvio che a quel punto il mio umore non è che fosse sceso al gradino più basso della scala umana, bensì molto di più.

S’erano fatte le sette di sera di quel 12 maggio 1965. Non mi restava altro che fare un salto alla libreria di Carmelo e Ciccio D., l’antro sacro della nostra giovinezza dove non c’era giorno alla settimana che io non ci entrassi almeno una volta se non due.

Ebbene, Ciccio D. mi disse che alla sera ci sarebbe stata in tv la partita di ritorno, a Milano, della semifinale di Champions tra l’Inter di Helenio Herrera e il Liverpool, la squadra della città da cui provenivano i Beatles.

Una settimana prima, in casa dei reds, il Liverpool aveva sbatacchiato i nerazzurri con un sonante 3-1. All’epoca la regola che il gol realizzato in trasferta vale doppio non esisteva ancora. Il che significa che per passare il turno e andare in finale l’Inter doveva sotterrare i fortissimi inglesi con un pressoché impossibile 3-0. Ciccio D. mi invitò a vedere la partita a casa sua.

A qualcuno di voi parrà strano, ma in quel 1965 io del calcio italiano e del calcio in generale non sapevo più nulla. Da alcuni anni avevo perso di vista lo sport e le sue contese che pure avevo amato molto, ma che adesso reputavo indegne di distrarmi dalla passione per me dominante in quegli anni, la passione per le idee del dibattito politico e culturale.

Sì, sì, vi apparirà strano, ma il me stesso del maggio 1965 era così; pare strano anche al me stesso di oggi, che non rinuncerebbe per nulla al mondo di vedere un match di Roger Federer, una nuotata della Federica Pellegrini, i muri e le schiacciate della nazionale italiana di pallavolo, Cristiano Ronaldo che si inerpica in cielo e ci resta un bel po’ prima di battere in rete la palla di testa.

Niente, non sapevo niente del calcio del 1965; nulla di nulla sapevo della Grande Inter, chi e come fossero tipini quali Mariolino Corso, Armando Picchi, Luisito Suárez, Sandro Mazzola, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti. E questo anche perché a casa nostra non avevamo i soldi di che pagarci una tv. Non fossi stato dell’umore che vi ho detto, probabilmente avrei declinato l’invito di Ciccio D. E invece, anziché rimanere da solo a rimuginare l’amarezza di quel ventinove e dell’apparente indifferenza della bionda, dissi di sì.

Noi innanzi al televisore nella casa di Ciccio D. tesissimi, sugli spalti di San Siro settantamila persone ruggenti. A otto minuti dall’inizio, punizione a favore dell’Inter sul limitare dell’area inglese.

A calciare è un certo Mariolino Corso – da me mai visto prima – il quale si avvia lemme lemme con i calzettoni abbassati fino allo stinco, batte di sinistro, la palla si impenna e si invola fino all’incrocio della porta inglese. 1-0. Passano due minuti ed è meglio che al teatro. È successo che il portiere inglese è uscito ad anticipare lo spagnolo Peiró, il numero 9 nerazzurro. Il portiere dopo avere acciuffato la palla la fa rimbalzare un paio di volte a terra per poi batterla lontano. Solo che il diabolico Peirò gli è andato dietro, ha aspettato i due rimbalzi regolamentari e al tentativo del terzo rimbalzo rapina la palla al portiere inglese e la depone comodamente in rete. 2-0.

A questo punto tutto si gioca a chi segna un gol. Se lo segnano i nerazzurri, vanno in finale; se lo segnano gli inglesi, in finale ci vanno loro. Diventa così una partita accesissima in cui si dispiega la maestosa perfezione della Grande Inter di Helenio Herrera (trent’anni dopo lo avrò seduto accanto durante le puntate di una trasmissione televisiva dedicata al calcio).

Era una squadra la cui linea difensiva, con un mediano da interdizione alle calcagna del creatore di gioco avversario, era pressoché inviolabile sia per la sovrumana bravura di ciascuno di quei calciatori che per la meravigliosa armonia del reparto nel suo insieme, una vera e propria macchina a orologeria.

Appena la difesa interista catturava la palla la forniva a un uomo non molto alto e scarso di capelli che lì in mezzo al campo aveva l’aria di un sovrano, lo spagnolo Luisito Suárez, il più costoso acquisto di un giocatore straniero mai fatto da un club italiano (fino a quel momento il record dell’acquisto più costoso spettava alla Juve quando s’era assicurata Omar Sivori). Nel ricevere la palla Suárez ci metteva un istante a torcersi e a lanciarla lontanissima – senza nemmeno guardare chi e dove – verso la porta avversaria, lì dov’erano partite due saette umane, l’italiano Mazzola e il brasiliano Jair. Era il paradigma del famoso «contropiede» all’italiana portato a un livello di perfezione astrale.

Solo che quella macchina aveva un’altra chance, e questo quando Facchetti conquistava la palla sulla sinistra dello schieramento difensivo nerazzurro per poi scagliarsi a furia di falcate indimenticabili contro la porta avversaria. Diventava un uomo in più in attacco, contro le cui scorribande non c’era opposizione possibile. Da una di queste scorribande, al diciassettesimo del secondo tempo, nacque la terza e decisiva rete dell’Inter. 3-0. La squadra italiana era in finale. Era stata una delle più belle partite mai viste nella mia vita (quell’anno la Grande Inter vinse scudetto, Champions e Coppa Intercontinentale).

Noi in casa di Ciccio D. felicissimi della vittoria di una squadra italiana. Io che avevo dimenticato e come cancellato le brutture tutte di quel dannato pomeriggio e che in un colpo avevo riscoperto la bellezza dello sport, della contesa leale, del football. Onore alla Grande Inter, una delle tante meraviglie italiane degli «indimenticabili sessanta».

da “Nuovo dizionario sentimentale. Delusioni, sconfitte e passioni di una vita”, di Giampiero Mughini, Marsilio, 2021, pp. 288, euro 18,00

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