Ci vorrebbe, anche oggi, un romanziere, non uno storico o un politologo, per raccontare la profonda verità culturale e materiale dell’Italia politica, nel connubio imprescindibile e quindi ricorrente tra immobilismo e trasformismo, retorica eversiva e propaganda d’ordine, avventurismo e rivendicazioni di responsabilità.
Il contismo è solo l’ennesima (ma non ultima) pagina di questo romanzo politico della nazione, che si dipana lungo il corso dei decenni – anzi ormai dei secoli – e di cui Il Gattopardo, raccontandone l’esordio nell’Italia unitaria, ha descritto la declinazione forse più nobile e dolorosa. I successivi centosessanta anni di Regno e poi di Repubblica hanno sviluppato su questa matrice una miriade di modelli politici, tutti diversi e anche apparentemente opposti, ma accomunati dall’identità tra novità e conservazione, dal cambiamento come rimescolamento e dal movimento senza spostamento. La politica come ammuina.
Non c’è dunque da stupirsi che dal ventre dell’Italia antipolitica, indottrinata anche dalla stampa perbene al disprezzo delle élite e dai partiti al dileggio delle istituzioni, siano stati partoriti cacicchi che oggi si contendono le sorti dell’Italia in una crisi che non è di governo, ma di sistema (il Paese era economicamente e civilmente collassato ben prima della pandemia) e che non hanno la più pallida idea di come spendere i soldi del NextGenerationEu, se non come si sono sprecati per anni gli aiuti al Sud, comprando voti ed elargendo rendite.
Non hanno idea di come spenderli perché non hanno neppure idea di ciò a cui dovrebbero servire, avendo ideologicamente rifiutato una spiegazione onesta e razionale della situazione dell’Italia e delle relative responsabilità, a partire da cosa “noi” abbiamo fatto e non fatto di noi stessi nell’ultimo quarto di secolo. Partono invece sempre dal «che cosa ci hanno fatto», inseguendo il fantasma di un “chi”, che non sia mai un “noi”.
L’Italia è stata privata per decenni della conoscenza e consapevolezza sulle cause strutturali del proprio declino e drogata, da Tangentopoli a oggi, dalla cocaina colpevolistica dei vendicatori del popolo, per cui tutto è colpa dei ladri (cioè ovviamente, in primo luogo, dei politici) e poi del liberismo, e poi di Berlusconi e di Prodi, e poi di Monti, e poi dell’Europa e dell’euro, e poi della globalizzazione e dell’immigrazione, e poi di Renzi. In un’Italia così non è semplice ritrovare il bandolo della matassa delle verità negate, né uscire dal circolo vizioso tra domande non consentite e risposte impronunciabili.
Il risultato finale è il successo di una classe politica fatta a immagine e somiglianza del declino italiano, conformata all’etica del vittimismo e all’estetica della decadenza, che maledice gli affronti della sorte e gli oltraggi di non meglio specificati potenti che congiurerebbero contro il popolo, proprio mentre si fa potere, affermandone addirittura la necessità storica e morale. Chi è contro Conte, Rocco Casalino, Luigi Di Maio, Francesco Boccia e Domenico Arcuri è tout court contro l’Italia – dicono gli interessati.
Nelle polemiche di questi giorni sulla crisi di governo, comunque la si pensi sulla scelta e sulle contraddizioni di Renzi, il resto della maggioranza è insorta rivendicando la vera e propria irrinunciabilità democratica di Conte e la natura eversiva e antipatriottica di una scelta che, come quella contraria e cosiddetta responsabile, appartiene alla normalità del gioco parlamentare e al repertorio di giravolte, cui si deve anche la vita, per chi se lo fosse dimenticato, del Governo Conte bis.
La pandemia, che l’Italia ha affrontato con risultati tutt’altro che invidiabili e che in ogni caso suggerirebbe di cambiare almeno qualcosa, se non qualcuno, è diventata anch’essa l’alibi clinico della continuità del Governo e della intoccabilità del presidente del Consiglio. Si è arrivati a dire: «Come ci si può impuntare sul Meccanismo europeo di stabilità durante la pandemia?», come se si trattasse di una cosa curiosa chiedere di utilizzare una linea di credito sanitario nata per l’emergenza Covid da parte di un Paese che ha iniziato la pandemia senza non dico i posti in terapia intensiva, ma le mascherine, e che l’ha continuata chiedendo a una Ong che lavora in Afghanistan e in Sudan di portare i suoi ospedali di guerra in Calabria.
In tutto questo, al di là di un entusiasmo retorico da cheerleader a cui si sono prestati anche nomi storici del Partito democratico – il Presidente non si tocca! – il nocciolo duro del fenomeno Conte è proprio quello della inscindibilità tra immobilismo e trasformismo, dello status quo come sole dell’avvenire, nonché della perfetta convertibilità tra il cambiare tutto perché nulla cambi e il non cambiare niente, per cambiare tutto. A partire da Conte, che deve rimanere inamovibile, uno e governativamente bino e forse trino, a fare la rivoluzione nella continuità, a cambiare l’Italia nella stabilità, a incarnare nella sua personalità totale la totalità della nazione, assorbendo in sé e fuori di sé qualunque differenza e contraddizione, come l’Italia sempre uguale a se stessa in tutte le sue maschere. Un po’ Padre Pio, un po’ Torquemada, un po’ Che Guevara, un po’ Forlani, un po’ Vaffaman un po’ «che signore distinto».
Nell’Italia della statusquocrazia, che, come scriveva Pannella, non ha mai conosciuto riforme, ma solo controriforme e che ripudia quasi religiosamente come un’eresia protestante ogni tentativo di libero esame della storia dogmatica nazionale – del perché siamo messi così e come ci siamo arrivati –, al conservatorismo rivoluzionario dei populisti ovviamente si oppone quello reazionario dei sovranisti. Il quale però molto più del primo incrocia lo spirito del tempo che soffia forte sui destini dell’Occidente e a cui la fine ingloriosa di Trump ha tolto una sponda, ma non una ragione. Quindi, se tutto va come deve andare, all’arcitaliano Conte, seguiranno gli arcitalianissimi Meloni e Salvini, nell’eterno ritorno dell’identico della storia patria.