I pezzi che mancanoIn tutto questo, il Recovery Plan italiano non è ancora pronto (e non c’entrano gli hacker)

Il documento è stato assegnato alla Commissione Bilancio della Camera, servirà poi il confronto con le parti sociali e gli enti locali, insieme a un lungo elenco di atti integrativi che richiederanno un raccordo tra le amministrazioni

(AP Photo/Virginia Mayo)

Quello che si sa è che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), meglio conosciuto come Recovery Plan, è uscito dalle stanze di Palazzo Chigi. E che le 172 pagine per ottenere i 209 miliardi di euro del Next Generation Eu arriveranno presto alle Camere. Ma tra crisi di governo, passaggi parlamentari e confronti ancora da mettere in calendario con le parti sociali, è già partita la corsa contro il tempo per chiudere un piano che è tutt’altro che completo.

Considerato il ritardo accumulato, l’obiettivo ormai non è più presentare il documento finale alla Commissione europea in anticipo – come aveva annunciato a più riprese il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri – ma almeno consegnarlo entro la deadline del 30 aprile indicata da Bruxelles.

L’Italia, che è il Paese che ha ricevuto la somma maggiore tra gli Stati membri, non può permettersi di non farsi trovare pronta. Ma il lavoro da fare è ancora tanto. E il percorso tutto in salita. Considerando anche che il testo approvato dalla maggioranza prima delle dimissioni dei renziani si limita a indicare la lista della spesa e gli obiettivi generali. E deve essere riempito ancora di svariati documenti integrativi per spiegare a Bruxelles procedure, tempi e risultati economici attesi dai progetti. Pena la bocciatura, come hanno previsto già diversi esperti.

Secondo quanto stabilito dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, il documento ìsarà assegnato alla V commissione Bilancio della Camera, per poi approdare in aula a metà febbraio e votare le risoluzioni. Questo è anche il timing promesso più volte dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma non è affatto scontato.

E non solo per la crisi politica in corso, ma anche per i tempi che potrebbe richiedere il confronto parlamentare. In teoria, in realtà, il piano potrebbe fare anche a meno di passare della Camere e arrivare dritto a Bruxelles. Ma Conte e i suoi ministri hanno più volte promesso il passaggio dalle aule. Un passaggio che si fa ora ancora più necessario per un governo a caccia di responsabili e che potrebbe dover tornare in Parlamento per chiedere la fiducia.

Ma sia dalle audizioni in Commissione, sia dal confronto con i partiti di maggioranza (qualunque essa sarà) e di opposizione arriveranno non poche richieste di modifica. Ogni partito ha già pronta nel cassetto la sua lista di progetti per il Recovery Plan ed è prevedibile che ognuno proverà a infilarne il numero maggiore possibile, proprio come accade puntualmente ogni anno con la legge di bilancio.

Senza dimenticare che proprio in Parlamento andrà risolta la questione della governance del piano, argomento che ha innescato la crisi tra Conte e Renzi. E così il governo, per uscire dal vicolo cieco e far approvare il testo dalla maggioranza in bilico, ha rimesso la questione al Parlamento. Nella bozza si legge che il governo «presenterà al Parlamento un modello di governance che identifichi la responsabilità della realizzazione del Piano, garantisca il coordinamento con i Ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Per farlo, servirà probabilmente un decreto legge, che a sua volta andrà negoziato nella futura maggioranza bricolage che si sta tentando di formare.

Non solo. Come hanno fatto notare subito i sindacati, ma anche gli industriali, il documento è stato scritto e discusso finora solo al chiuso delle stanze ministeriali, senza un confronto con le parti sociali. Conte ha più volte annunciato il confronto con categorie, sindacati ed enti locali. Ma non c’è ancora un calendario delle convocazioni. E pure questo non sarà un passaggio veloce. E ciascuna categoria, anche qui, ha il suo elenco di proposte, visto che dal piano dipendono le sorti dell’Italia nei prossimi vent’anni e per questo non può essere affidato «esclusivamente alle volontà di una maggioranza contingente e di una politica litigiosa» – ha fatto già notare qualche leader sindacale.

Bisogna poi considerare che il documento prevede una serie di riforme, dalla giustizia alla scuola, dalle politiche attive del lavoro al fisco, che andranno quantomeno abbozzate entro il 30 aprile. Per arrivare poi all’esame di Bruxelles, che sarà tutt’altro che facile da superare, come ha più volte fatto intendere il Commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni.

Senza dimenticare che il documento portante dovrà essere corredato da una serie di atti integrativi, decreti ministeriali, disposizioni amministrative e decreti legge per velocizzare cantieri e investimenti. Disbrighi che richiederanno un confronto fra diversi livelli istituzionali, che si prospetta tutt’altro che semplice, vista la mancata tradizione italiana di pianificazione e raccordo tra amministrazioni. La Francia, per dire, aveva già un Ufficio per la pianificazione (l’Haut-Commissariat au Plan). E già il 3 settembre ha presentato il piano “France Relance”, che è stato corredato poi due mesi dopo da un “tableau de bord”, dove si indica lo stanziamento per ciascun progetto specifico, tempi di realizzazione step-by-step e monitoraggio dell’avanzamento dei lavori. Per il piano italiano, ad oggi, non conosciamo ancora neanche la governance.

La Commissione europea, una volta consegnato il piano, avrà a disposizione otto settimane per esaminare il documento. E il Consiglio altre quattro. Consegnando il piano entro il 30 aprile, ci vorrà l’estate, insomma, prima di vedere il primo anticipo.