Rompere il tabù dei formati diversi da quelli classici, ampliare l’azione di contrasto alle frodi fuori dai confini italiani e investire in tecnologie e persone. È la ricetta per salvare la mozzarella di bufala campana Dop secondo il presidente del Consorzio di Tutela, Domenico Raimondo, al vertice da dieci anni e oggi anche presidente di Afidop (l’associazione che raggruppa i Consorzi di tutela dei formaggi a denominazione di origine protetta).
Il consorzio campano conta 90 produttori-trasformatori, circa 1500 allevamenti ricompresi nell’area Dop – le intere provincie di Caserta e Salerno, più alcuni comuni in quelle di Latina e di Frosinone, di Campobasso e di Foggia. Stanno tutti facendo i conti per la chiusura del 2020. «Se nel 2019 abbiamo potuto vantare 50 milioni di chili di mozzarella prodotti, il 2020 probabilmente chiuderà con un calo del 12, 15%. Per un dato preciso mancano ancora alcune elaborazioni, fortunatamente abbiamo in parte recuperato dal calo del primo lockdown, la scorsa primavera, che era del 25% circa. Sul mercato italiano pesa tantissimo la stretta su cerimonie ed eventi, perché la nostra mozzarella è su tutte le tavole in quelle occasioni. Pensare che i primi due mesi del 2020 stavano facendo segnare un +16%, oggi, fa quasi male».
La pandemia ha imposto una scelta: il ministero delle Politiche agricole (guidato da Teresa Bellanova, oggi dimissionaria) ha prorogato fino al 30 giugno una deroga al disciplinare di produzione della Mozzarella di bufala campana Dop, per consentire l’utilizzo di latte congelato da parte dei caseifici. Confagricoltura ha reagito con una critica: la scelta «non aiuta l’allevamento e non valorizza l’immagine del prodotto verso i consumatori. Di fatto, si è sminuito decisamente il rigido sistema di controllo previsto tra latte munto e certificato per la Dop e prodotto Dop trasformato». Raimondo garantisce: «Sulle etichette sarà segnalato chiaramente che quel prodotto è fatto con latte congelato, come ci ha imposto giustamente il Ministero. Di fronte a un problema enorme come la pandemia, quando si ha a che fare con la natura non si possono fermare gli animali bloccando la produzione di latte come si spegne una macchina. Chiudere i caseifici e lasciare il latte nelle stalle avrebbe significato buttarlo. Abbiamo scelto di continuare».
La Bufala campana è una razza insediatasi nelle zone del Consorzio intorno all’anno 1000. «Pare abbia trovato qui un ambiente a lei congeniale, perché paludoso e acquitrinoso», spiega a Gastronomika Raimondo. «Il suo latte è un po’ più dolce e grasso del latte vaccino, ha anche una maggiore carica di proteine. Tutto dovuto all’alimentazione degli animali nell’area in cui risiedono: nei campi ci sono sostanze uniche, che rendono speciale il prodotto finito». Le 90 aziende sono varie declinazioni della formula artigianale, nessuna arriva al calibro della grande industria (anche se le prime dieci in ordine di grandezza hanno un fatturato tra i 20 e i 50 milioni di euro).
In tutto, tra caseifici e allevamenti, sono circa 16 mila i lavoratori coinvolti dalla filiera della Mozzarella di bufala campana. La quale, per riprendersi, avrebbe bisogno di svecchiare il disciplinare, sostiene il presidente del Consorzio: «Questa crisi ha rinnovato la necessità di realizzare qualche altro prodotto: per il futuro dobbiamo investire su prodotti alternativi per il canale ho.re.ca. – oggi in Italia il principale canale di vendita è la Gdo, che pesa per il 50% – variando le forme e le pezzature della mozzarella previste nel disciplinare. Oggi solo le mozzarelle da 25 gr a 800 gr possono essere vendute come Dop, mentre quelle da 1 kg prodotte con lo stesso latte e nello stesso caseificio non possono chiamarsi così. Altro aspetto su cui fare una riflessione: dobbiamo migliorare le performance all’estero, oggi vale intorno al 38% delle nostre vendite. La nostra mozzarella viene venduta nel suo liquido di governo (il liquido acidulo e salato nel quale è immerso il formaggio, ndr), sempre secondo le regole. Significa che dobbiamo arrivare a New York spostando un chilo di mozzarella con un peso di due chili. Sulla scaletta dell’aereo il costo è già di 20 dollari, poi ci sono i costi di distribuzione e le altre spese. Il tutto per approdare in cucine non così avvezze ad apprezzare l’altissima qualità delle nostre eccellenze gastronomiche». Cosa servirebbe? «Almeno una riflessione su alcune modifiche, ma viviamo uno stallo ormai da tempo. Sia per la scarsa capacità progettuale della politica e per l’instabilità – ho incontrato 11 ministri dell’agricoltura in 10 anni di mandato e mi appresto a incontrare il 12esimo – che per le eterne lungaggini della macchina burocratica italiana. Una modifica di dettaglio del disciplinare deve avere l’accordo di Regione, Ministero e infine Europa. Un processo di per sé lungo, che diventa infinito con la complicità della lentezza della nostra macchina pubblica».
Tornando nei caseifici, mentre si è tamponato il problema della sovrapproduzione di latte durante la pandemia resta sempre aperto il tema delle frodi e delle sofisticazioni. Il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop ha incassato una vittoria di recente, quando le autorità spagnole hanno denunciato per frode contro la salute pubblica, frode alimentare e pubblicità ingannevole il caseificio produttore della Bufala de L’Empordà. Una mozzarella venduta a Barcellona e in Catalogna come “100% latte di bufala”, ma in realtà realizzata con percentuali di latte vaccino comprese tra il 9,35% e il 22,10%, la cui attività era stata segnalata del Consorzio nel 2018. «I nostri ispettori», dice Raimondo, «operano circa 20.000 campionature all’anno. Si verifica che le aziende tengano fede al disciplinare di produzione e si controllano i passaggi. In Italia il fenomeno del mancato rispetto del disciplinare o di chi marchia fraudolentemente il proprio prodotto pur operando fuori dalla zona Dop si è quasi azzerato, siamo allo 0,5%. Abbiamo attivato una task force, una squadra che gira in Europa per scovare frodi di marchiatura fuori dai nostri confini. Su questo fronte contano molto gli accordi con i singoli Paesi, da poco si è aggiunto il Giappone che riconosce la nostra Dop».
Anche con modalità di produzione fieramente ancorate al mestiere del casaro e ai segreti delle lavorazioni artigianali, non si può che mescolare tecnologia e manualità per affrontare la ripresa. Lo scorso autunno la Scuola di formazione gestita dal Consorzio di Tutela ha consegnato il diploma di “operatore delle lavorazioni lattiero casearie” a 11 studenti (fra i quali le prime due donne), dopo cinquecento ore di formazione. La quarta edizione del corso è andata subito sold out e ha attratto anche due studenti da oltre confine, dall’India e da Israele. «Vogliamo costruire una filiera preparata al mercato, e per farlo serve anche questo: spingere sulla formazione», chiude Raimondo. «Però gli investimenti tecnologici sono fondamentali, per migliorare la nostra produzione sotto gli aspetti della standardizzazione e della sicurezza alimentare – senza le quali non si può accelerare sui mercati esteri».