Made in ItalyPer Daniel Libeskind il primato del design è ancora italiano

Come prodotti, tendenze, scuole e marchi il nostro Paese è ancora imbattibile. Lo rivela l’architetto in “Icone” (Luiss University Press), il libro di Giovanna Mancini che raccoglie storie di famiglie e imprese del settore

LaPresse/ Claudio Furlan

«Vivevo a Milano quando iniziai a lavorare al progetto per il concorso destinato al Museo ebraico di Berlino. I miei figli, che all’epoca facevano la scuola elementare, portavano spesso a casa i loro amici, che guardavano incuriositi i miei disegni. Ma, a differenza di tanti adulti, che si stupivano per alcuni aspetti del progetto e mi chiedevano di che cosa si trattasse, questi bambini di sette-otto anni, senza sapere nulla di architettura, mi dicevano “metti un angolo qui”, “questo fallo un po’ più alto”… Avevano idee incredibili e allora mi resi conto che gli italiani probabilmente hanno un senso innato della creatività e della bellezza».

Architetto e designer di fama internazionale, Daniel Libeskind di creatività e bellezza se ne intende. È suo il progetto del Museo ebraico di Berlino, suo è il masterplan di Ground Zero a New York, solo per citare i due esempi più celebri. Nato in Polonia nel 1946 da genitori di origini ebraiche, Libeskind ha vissuto alcuni anni in Israele per poi trasferirsi, a 16 anni, a New York. La sua carriera lo ha portato in diversi Paesi, tra cui il nostro, dove ha vissuto tra il 1985 e il 1989. In Italia ha lavorato soprattutto come designer, progettando moltissimi oggetti e arredi per brand del made in Italy.

Più di recente è riuscito a portare la sua firma anche come architetto: ha ideato l’ultimo grattacielo costruito nel complesso Citylife a Milano, soprannominato “Il Curvo” e alcune delle abitazioni adiacenti.

Lei conosce molto bene il nostro Paese: che cosa rende così competitivo e riconoscibile il design italiano nel mondo?
Il primo incontro che ho avuto con il design italiano risale a quando ero ancora uno studente di architettura a New York, in occasione di un’importante mostra sul design italiano al Museum of Modern Art, che esponeva le icone degli anni Sessanta. Mi fu chiaro subito che c’era qualcosa di unico nel design italiano e questa unicità non era data solo dalla forma dei prodotti o degli oggetti, ma da una sensibilità, che io definirei profondamente italiana, che permette di trattare il design come una disciplina culturale. Non è solo una questione di estetica o di funzionalità, né tantomeno di commerciabilità dei prodotti: il design per gli italiani è parte dell’idea di bellezza, dell’idea di cultura, è parte di un’idea che comunica identità. È qualcosa che si radica profondamente nella storia dell’Italia, perché molto di quello che l’Italia è oggi, è l’eredità del suo passato. È qualcosa che non puoi imparare solo nei libri, o che puoi ottenere copiando una forma, perché porta con sé questa sensibilità profonda, che è insieme intellettuale e intuitiva e che tutti possiamo riconoscere e comprendere immediatamente, anche se non siamo designer o non abbiamo studiato storia dell’architettura o del design.

Crede che questa unicità sia anche il frutto di un’attitudine al rischio e all’innovazione che caratterizza le imprese italiane di questo settore?
Ovviamente dipende dall’azienda e dal prodotto, non posso parlare in generale. Ma è un dato di fatto che molte di queste imprese sono di proprietà familiare e hanno una propria tradizione consolidata. Questo rende possibile un approccio al design non soltanto come business, ma come parte di uno sviluppo culturale. Credo che questo faccia la differenza, perché quando incontri le persone che lavorano in queste aziende, trovi grande concretezza e un interesse umano alla realizzazione di un progetto, che va oltre l’aspetto del solo profitto a cui guardano molte grandi società internazionali. Sicuramente l’idea del design italiano ha molto a che fare con questo orientamento ad assumersi rischi imprenditoriali a beneficio del design stesso, per cercare di ottenere qualcosa che non ha precedenti, senza farsi vincolare da rigide formule basate su costi, efficienza e così via.

Ha toccato un aspetto delicato: la proprietà familiare di molte di queste aziende. Per alcuni osservatori, questo è un limite alla loro crescita ed evoluzione. Lei cosa ne pensa?
È un tema molto interessante. Ci sono alcuni inconvenienti nella conduzione familiare, certamente. Per questo oggi accade sempre più di frequente che le piccole imprese vengano acquisite da grandi gruppi: questo le solleva da problemi, ad esempio, di gestione o di liquidità. Ma esistono anche soluzioni ed esperienze diverse, come quella degli Amici di Como, che ho conosciuto personalmente: si tratta di un’associazione che raggruppa alcune imprese locali, che assieme fanno attività di sviluppo per il territorio. Ecco, io credo che la solidarietà produca una grande forza: mettersi insieme consente di dare vita a progetti fantastici, innovativi e creativi. Quindi, certamente, ogni azienda deve studiare il proprio modello di business, ma nella mia esperienza a Como ho visto quello che possono fare queste aziende quando uniscono le proprie forze e penso perciò che ci siano alternative alle concentrazioni di imprese. In ogni caso, vedo che la politica di molte grandi holding è quella di preservare l’indipendenza e l’identità dei brand in portafoglio e questa è sicuramente la via giusta da scegliere per mantenere anche la libertà creativa.

Lei si sente libero quando lavora con le aziende italiane?
Assolutamente sì! Ho lavorato con moltissimi imprenditori e nessuno mi ha mai detto: “Voglio esattamente questo, fai questo e quest’altro”. No: le aziende italiane del design sono molto aperte di mentalità e curiosamente questo vale anche per i brand più conservativi dal punto di vista del prodotto, che fanno lo stesso divano da venti o trent’anni. Anche in questi casi, c’è una continua discussione per cambiare un angolo, un materiale, un elemento estetico. E per noi progettisti non è mai una battaglia contro i mulini a vento: le aziende apprezzano l’impegno di chi cerca di portare qualche innovazione. Ho avuto la fortuna di lavorare con tutti i tipi di imprese, da quelle storiche a quelle più giovani, e ho trovato sempre questa libertà creativa, che si rinnova in continuazione.

Lei ha lavorato molto come designer nel nostro Paese. Non altrettanto come architetto: è un caso?
No, non è un caso. Anzi, credo che la ragione sia molto chiara: in Italia c’è una grande tradizione nel design, mentre c’è molto meno spazio per fare architettura. Per questo molti architetti di talento lavorano per aziende del design, lavorano cioè su piccoli oggetti, che poi a ben guardare sono architetture in piccola scala. Penso sia qualcosa di tipicamente italiano: in nessun altro Paese troviamo così tanti architetti che lavorano nel design.

Architetti non solo italiani. Il nostro Paese non ha mai avuto una grande capacità attrattiva nei confronti dei talenti dall’estero. L’industria del design invece sì. Come mai?
Penso che la cultura italiana sia stata transfrontaliera sin dall’inizio dei tempi. Il vantaggio dell’Italia in questo mondo è che non crede nei confini, nei muri e nel costruire separazioni. Certo, anche da voi ci sono movimenti nazionalisti, ma l’Italia sa bene che il mondo non può fondarsi sui limiti. Credo che questo porti gli italiani a essere istintivamente aperti di mentalità e perciò non mi sorprende che designer da tutto il mondo possano lavorare in Italia e possano contribuire alla creazione del design italiano.

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I prodotti italiani sono molto competitivi, nel mondo, soprattutto nel settore del lusso. Perché secondo lei? È una questione di qualità, di prestigio dei brand? O di entrambi?
Questa è la mia unica critica: quando si tratta di progettare gli interni di grandi progetti per alberghi o ristoranti, la scelta dei committenti è spesso basata sul principio che più grande o famosa è l’azienda e meglio è. Secondo me questo dipende dal fatto che rivolgersi a un brand rinomato dia una sorta di sicurezza o garanzia, ma io penso che gli investitori dovrebbero assumersi il rischio di lavorare anche con studi di architettura o aziende più piccoli, che possono magari portare qualche elemento di novità, inatteso, mentre molti grandi marchi propongono prodotti e soluzioni che hanno già realizzato migliaia di volte. Penso che in questo settore non ci sia veramente una strategia: le persone sono sempre interessate alla dimensione e così, spesso, chi deve realizzare questi megaprogetti poi si affida a grandi aziende anche per i mobili, sempre per una questione di dimensioni. Manca una vera educazione dei clienti all’idea che il design non è solo un prodotto industriale, ma è anche e soprattutto un prodotto culturale.

L’Italia è ancora la patria del design e Milano la sua capitale, oppure altri Paesi stanno crescendo e diventando più importanti?
C’è sempre una grande competizione nel mondo. I Paesi scandinavi, ad esempio, hanno una produzione ricchissima e di grande qualità. È impossibile dire con certezza quello che succederà: certamente, nessun Paese ha la cultura che ha l’Italia, quindi per ora lo scettro è ancora nelle vostre mani. Ma viviamo in un’epoca molto competitiva e non si deve dare nulla per scontato. Nessun’azienda può permettersi di sedersi e pensare di essere arrivata.

da “Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano”, di Giovanna Mancini, Luiss University Press, 2020, 192 pagine, 18 euro

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