Adulti, ma bambiniEmma Dante e il suo mondo fantastico creato per deformare la realtà, non per imitarla

La drammaturga palermitana ha riscritto le favole più famose: «Se togli la ferocia, la favola non insegna. Edulcorare solo per non far inquietare è una minchiata»

Ap\LaPresse

Cappuccetto Rosso ha, almeno, due personalità, quella magra e quella grassa, e una madre totalmente egoriferita. La Bella Addormentata, al contrario, ha dei genitori che le stanno continuamente addosso e la vorrebbero per sempre bambina. I sette nani non sono propriamente nani, ma mutilati sul lavoro. Sono solo alcune delle deformazioni sfrenate delle favole che Emma Dante, una delle principali registe e drammaturghe italiane, ha raccolto in “E tutte vissero felici e contente” (La Nave di Teseo, con illustrazioni di Maria Cristina Costa). Una riscrittura delle favole originale, senza mai essere forzata, come è accaduto spesso, ultimamente, per operazioni analoghe. 

Ormai quando pensiamo alla favola pensiamo necessariamente ai bambini: perché abbiamo confinato la favola solo al loro mondo?
Non siamo in grado di diventare adulti senza restare un po’ bambini. Non ce la facciamo, è più forte di noi. Come diceva quella bellissima canzone di Franco Battiato? Ci vuole del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. Abbiamo paura di restare bambini, invece restare un po’ bambini dovrebbe essere un esercizio quotidiano! Per questo, per paura, gli abbiamo assegnato le favole. E anche per questa ragione io considero il libro che abbiamo appena pubblicato come un libro per “adulti accompagnati”. 

Giusto, il contrario. 
Si dice sempre “bambini accompagnati” quando si vuole avvisare prima della visione di qualcosa, no? Qui invertiamo l’avvertenza. Perché ci sono delle cose che i bambini accettano con serenità, mentre i genitori no. Per esempio, che il principe azzurro che risveglia con un bacio sia in realtà, come in questo libro, una principessa. 

Anche lo stesso titolo del libro è costruito su un’inversione. “E tutte vissero felici e contente” invece del classico “e vissero tutti felici e contenti”. 
Anche quando nelle favole le protagoniste sono donne – e quasi sempre le protagoniste sono donne – il finale è “vissero tutti felici e contenti”. Facciamoci caso. Nelle favole la protagonista è spesso una donna, perché è la donna che subisce il tormento della vita. C’è questo schema che si ripete molto spesso: la donna è protagonista, l’uomo arriva alla fine, la prende, la bacia o la salva, la porta nel castello e se la sposa. E però poi la frase è declinata sempre al maschile. E tutti vissero felici e contenti. Ma non è giusto! Noi siamo stati con la principessa fino a quel punto, abbiamo sofferto con lei, abbiamo tifato per lei, invece la frase è al maschile. Prendiamo la storia di Cenerentola, Biancaneve o Rapunzel: sono loro le protagoniste!

Nella favola disneyana che nel Novecento si è imposta come standard della favola tutto è molto edulcorato. Qui non accade. 
Questo è il primo esercizio della palestra. Bisogna tenere la favola nel suo mondo feroce. Conservare quella ferocia che poi è necessaria per la morale, perché una favola senza morale non ha senso. Se togli la ferocia, la favola non insegna: purtroppo è così. Non c’è niente da fare. Bisogna fare pace con questa cosa. Edulcorare solo per non far inquietare i bambini è una minchiata. Anche perché i bambini hanno bisogno di imparare le cose della vita, i grandi princìpi… hanno bisogno di essere guidati per essere poi più consapevoli quando saranno grandi. 

È la lezione delle favole di Basile. 
Difatti Basile ha ripreso e ha riscritto favole a modo suo. E, d’altra parte, la favola è un materiale orale quindi anche il concetto di riscrittura è sfumato, le stesse favole poi sono state rifatte dai Grimm o da Andersen. Ma Basile ha fatto delle cose meravigliose e io, di partenza, sono una basiliana. Lì non c’è niente di edulcorato, anzi c’è una struttura volgare e spudorata. E così dovrebbero sempre essere le favole, secondo me. 

C’è anche un uso particolare del siciliano. Per esempio, il principe tra sé e sé parla dialetto, ma quando si rivolge a Cenerentola passa all’italiano.
Per darsi un tono. Ma anche le regine e i re usano il dialetto. È una lingua segreta, una lingua che si parla dentro casa e non formale. Non mi interessa tanto attribuirne l’uso a un ceto sociale, quanto tirare fuori i sentimenti dalla pancia dei protagonisti attraverso il dialetto. A me piace che la regina parli dialetto, mi piace l’idea di sdoganare questa lingua dal basso ceto e portarla nell’alta sfera. E, allo stesso modo, mi piace sporcare i personaggi aristocratici che, di solito, ci appaiono impassibili. E quindi la regina fa la cacca, si pulisce. Rendere umani questi personaggi che nell’immaginario sono tutti immacolati… far capire ai bambini che la regina “fa i piriti”, ha l’aria nello stomaco. 

È un libro che si inserisce a pieno nel dibattito culturale di questi anni. Quanto la tua ispirazione lo precede? E quanto ne deriva? 
Le due cose ovviamente sono sempre legate: le cose accadono perché esiste il contemporaneo. Esiste ciò che c’è attorno a noi ed esiste un dialogo tra quello che accade e quello che si dice, i dibattiti, e la vita sociale. E poi c’è il teatro. Il teatro non può essere una cosa avulsa, non può essere un’esperienza solitaria. Quindi, diciamo che tutto è insieme. A cominciare dal titolo, perché, come dicevo prima, questa declinazione sempre al maschile ci ha stancati. Cambiare il punto di vista non è fare un atto femminista – inteso come un atto contro gli uomini – non mi interessa. Voglio semplicemente ripuntare il riflettore su una cosa che ci era sfuggita. La vita di queste principesse che ce la possono fare anche da sole. Non è che hanno sempre bisogno di essere salvate, no? Ecco. E se il principe fosse semplicemente un complice e non un salvatore? Non sarebbe tutto subito più accettabile? 

Sia in Cappuccetto Rosso che nella Bella addormentata si fa molta attenzione al contesto familiare.
Soprattutto adesso che viviamo solo in famiglia e che dobbiamo starci per tantissimo tempo a stretto contatto, il contesto familiare è molto importante. La famiglia è il luogo del rifugio, però è anche il luogo dello scannatoio, dove le persone possono vivere grandi disagi. La famiglia non è il posto migliore del mondo e non è neanche il peggiore, ma è sicuramente il luogo in cui facciamo i conti con tante cose. Ciò che per me conta di più è che i figli devono cercare di rimanere figli. Il problema delle famiglie è che a un certo punto i figli diventano genitori dei genitori. Perché se ne vanno tardi dalle case? Oppure perché i genitori non hanno la forza di mantenere un dialogo e si fanno piccoli piccoli e diventano fragili? Ovviamente c’è un gioco di gerarchie e una serie di braccio di ferro che non aiuta i ruoli. E però tutto nasce da lì, l’individuo si forma lì e quando esce è quella cosa lì. L’imprinting se lo tiene per tutta la vita. Quello che è stato con i genitori lo porterà con sé per sempre. 

In queste favole ho trovato una cifra comune con le Sorelle Macaluso (l’ultimo film di Emma Dante, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia e da pochi giorni disponibile su diverse piattaforme di streaming online). Il passaggio tra infanzia e adolescenza è il momento cruciale. 
Mi viene subito da pensare a Biancaneve o a Cappuccetto Rosso che sono eterne bambine. Eterne bambine un po’ sceme che attraversano un bosco e sai che, a un certo punto, succederà loro qualcosa. Ma poi, pensiamoci un attimo, Cappuccetto Rosso è una bambina di 8 anni che viene mandata sola nel bosco dalla mamma: è evidente che se ne sta fregando di sua figlia! La manda nel bosco da sola pur sapendo che c’è pure il lupo cattivo. Non è proprio educativo… Ma ci siamo abituati e abbiamo accettato che Cappuccetto Rosso vada da sola, tanto che lo raccontiamo normalmente pure ai bambini. Non abbiamo pudore di questo. Non lo edulcoriamo. Però, poi, magari abbiamo paura di inquietarli parlando della morte o del senso del tragico. 

Non è l’unico caso.
Anche Hansel e Gretel, cioè dei ragazzini che vengono abbandonati dai genitori… è una cosa orrenda da raccontare a dei bambini. Eppure, è diventato ormai un passaggio che non capiamo neanche più bene cosa significhi, tanto ci sembra naturale questa versione della fiaba. 

Il padre di Hansel e Gretel è un personaggio tremendo. Completamente succube della matrigna.
Ho scritto anche una versione di Hansel e Gretel che non è stata pubblicata. Con questo padre che, a un certo punto, si fa un esame di coscienza e capisce che è un debole, che è lui il pezzo di merda. Quella favola, per me, è la più feroce di tutte.

Dicevamo di Cappuccetto e Biancaneve sole nel bosco.
Il bosco è il mondo in cui entri per poi uscire grande. Fai esperienza, anche del male e del pericolo, ma diventi grande. Per questo anche nella mia riscrittura di Cappuccetto Rosso e Biancaneve ho cercato di mostrare a Biancaneve che i sette nani sono delle persone che hanno vissuto una tragedia – gli sono saltate le gambe in miniera – mentre Cappuccetto rosso è una bambina che, a un certo punto, capisce che forse l’amore della madre cambierebbe la sua storia di personaggio mitico. 

Leggendo il libro è subito evidente che queste favole sono state immaginate per il teatro.
Queste favole sono nate al teatro. Sono state spettacoli e poi sono state scritte per essere pubblicate. Io le conosco in quella forma e, quando ho visto il libro, ho rivisto gli spettacoli nelle pagine. Ma nel libro c’è anche uno straordinario contributo dato dalle illustrazioni di Maria Cristina Costa – fanno il 90% del libro! – perché la sua visionarietà le ha suggerito delle immagini che sono molto lontane dallo spettacolo. Significa che la lettura suggerisce delle deformazioni ed è proprio ciò che volevo: deformare la realtà. Perché per me questo è il compito della favola: non imitare la realtà, ma deformarla. 

I bambini adorano deformare.
I bambini hanno l’esigenza di allargare e allungare, ingrossare, dimagrire cose e forme. Vedere la strega altissima invece che curva come nello stereotipo. Perché con la magia diventa alta e vede le cose dall’alto, ma poi con la magia si invecchia e, a quel punto, però, non ricorda più l’incantesimo per tornare indietro. Perché è ormai stolida e rincoglionita. E la sua punizione è proprio questa! Questa deformazione ha a che fare col teatro, perché per raccontare una visione devi farlo a teatro, mentre l’illustrazione rimane lì su una pagina.

Sembra manchi ancora molto per la riapertura.
Mi auguro che i teatri riaprano presto, perché abbiamo bisogno di questa deformazione anche per elaborare quello che ci sta succedendo. Mi auguro che qualcuno capisca presto quanto sia fondamentale. Francesco Merlo ha scritto nei giorni scorsi che in assenza di teatro l’unica rappresentazione che ci resta a disposizione è la violenza. Mi è sembrata una considerazione vera e fortissima. Perché ci stiamo privando completamente di quel tipo di rappresentazione necessaria alla famosa catarsi, alla riflessione e alla rielaborazione del lutto. Ma se togliamo le valvole di sfogo che sono teatro e cinema siamo in una posizione ancora più complicata per poter combattere il mostro, che non è soltanto il virus, ma tutto ciò che accompagna la vita quotidiana. Senza spettacoli ciò che ci resta come rappresentazione è solo l’aggressività, la violenza e l’intemperanza. 

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