Una pezza di Lundini è stato uno dei programmi della stagione televisiva di cui si è parlato di più. Per tantissime ragioni, ma, forse, soprattutto perché ha riavvicinato alla tv un pubblico che aveva smesso di cercare un certo tipo di intrattenimento dalla televisione, soprattutto da quella pubblica. Accanto a Valerio Lundini, è spiccata subito la presenza di Emanuela Fanelli, che si era fatta già notare sia in tv (Dov’è Mario?, Battute, Stati Generali) che al cinema (Non essere cattivo), ma che in questa occasione ha avuto molto più spazio a disposizione e ha imposto con grande efficacia alcuni pezzi come i monologhi di “Voci di donna” o gli spezzoni di “A piedi scarzi”. La sento per parlare del successo della trasmissione che proprio qualche giorno fa ha concluso il suo primo ciclo.
«Aspetta che, prima di iniziare a rispondere, mi faccio il caffè».
Posso cominciare l’intervista così?
Sì, con lo spaccato di quotidianità. Adesso, un po’ in tutto, la strategia è sempre quella del sovraesporsi, no? Farsi vedere tanto, tantissimo, anche nella vita privata. Ti immagini se Mastroianni avesse fatto le storie Instagram? Magari sarebbe stato uno di quelli che scriveva «stasera pizza»… invece, per fortuna, è stato l’uomo più affascinante del mondo.
Non me lo immagino a twittare arrabbiato con Tim: «Oggi @telecom_italia la connessione non va. Non costringetemi a cambiare operatore».
Sì, oppure “oggi mercato time”. Meglio che non abbiamo saputo troppo della vita quotidiana dei grandi del passato. Sarebbe crollato tutto il fascino.
Penso anche agli scrittori. Ce li vedi Elsa Morante o Italo Calvino a retwittarsi un complimento?
«Leggete Le città invisibili: è un capolavoro», tweet di Gino da Rimini.
Con un solo retweet, dello stesso Italo Calvino.
Si sta formando anche un galateo dei social. Retwittare un complimento è educato o cafone? Altro discorso per quelli che ti insultano. A me pochi, eh, sono stata fortunata e relativamente esposta, mica ho fatto Sanremo. Ma comunque li vedi. Oppure c’è il tizio che scrive secco: «A me questa non piace». Solo che, soffrendo da un po’ queste cose, ho imparato a dargli il giusto valore. Sia ai complimenti che alle critiche. A novembre, quando c’è stato il compleanno di Monica Vitti, ho letto che uno ha scritto: «Peccato per quella vociaccia, però bella donna». Mi ha fatto pensare. Siamo in un’epoca in cui una persona può scrivere «peccato per quella vociaccia di Monica Vitti, però bella donna». Pensa se lei avesse avuto modo di leggerlo tanti anni fa, se fossero già esistiti Twitter o Instagram… magari aveva una giornata storta chissà e si sarebbe fatta due giornate di complessi perché aveva letto che Tizio da Dovevuoi le aveva scritto che aveva la vociaccia. Oltretutto la voce era una delle cose più belle di Monica Vitti.
Una volta, mi hanno raccontato di un famoso comico che, ben prima dei social, a un certo punto voleva abbandonare i panni del suo personaggio più famoso e di successo. Tutti gli autori del programma cercavano di capire perché voleva farlo. E, alla fine, scoprirono che la decisione era dovuta al fatto che il comico aveva parlato col suo autista e all’autista quel personaggio non piaceva più. E visto che, esclusi i colleghi, il comico parlava solo con l’autista, era come se tutto il pubblico fosse l’autista.
Credo che un po’ a tutti capiti di dare più peso alla critica di uno che ai complimenti di cento, sia essa scritta o verbale. Soprattutto in un mestiere come il mio in cui il pubblico è il datore di lavoro principale. Solo che ora sono tanti, magari prima Gina da Rimini lo diceva a un’amica sua mentre prendevano il caffè, adesso lo scrive su Twitter. E, anzi, ti tagga pure.
Infatti, pure questa è una cosa interessante, che ci tengono a dirlo al diretto interessato.
Quella è una pratica che mi incuriosisce molto. Che una persona pensi «ora sai che faccio? Scrivo a questa tizia a me estranea che secondo me deve cambiare lavoro, glielo voglio proprio far sapere» e lo fa perché può farlo, mi colpisce. Tutto è molto vicino. Mastroianni, invece, era lontano. Non è che potevi dirgli: «Sai che secondo me in Una giornata particolare sei stato scarso?». Pure se avessi pensato questa bestemmia, non avresti potuto dirglielo. Ma vale anche in positivo, al contrario, coi complimenti. Che qualcuno si prenda la briga di cercarmi e scrivermi delle cose belle, perdendo del tempo suo personale, è bello.
O «non mi sei arrivato» come si dice adesso al posto di «sei stato scarso». Però. Ci stiamo lamentando, ma se ne può fare a meno?
Credo di sì. Devo ammettere che Instagram ho iniziato a usarlo per le cose di lavoro e non ci metto cose private tipo «stasera sushi!», uno perché non credo interessi, due perché nel mio lavoro meno si conosce qual è la vita privata e meglio è. Almeno credo. Ma non per fare la sostenuta, solo che se mi metto di continuo sui social a parlare, a dire la mia, a mettermi in mostra, a fare tutto, una volta che faccio uno spettacolo o un film non è che uno ha voglia di uscire di casa per venirmi a vedere, mi ha già comodamente sul telefono quando vuole. Poi, ovviamente, ognuno faccia come vuole. Magari è anche carino farsi vedere in un altro modo, ma non è il mio modo. Non mi somiglia.
Veniamo a Una pezza di Lundini. Per molti il programma dell’anno, o uno dei programmi dell’anno. Quanto ve l’aspettavate o ci speravate?
Quando abbiamo iniziato a pensare al programma, non l’abbiamo impostato con l’idea «facciamo questa cosa perché questo in TV spacca» oppure «questo diventa virale». È stato tutto fatto con «noi lo guarderemmo?». Quindi con un gusto simile al nostro, che è lo stesso discorso che facevo prima sui social, ma per me è il modo più onesto per presentarsi, sempre. Faccio cose che a me piacerebbero o che mi farebbero ridere, poi magari se non funzionano o non fanno ridere, almeno è il gusto mio. Non ci siamo mai detti con Giovanni (Benincasa, ideatore del programma) o con Valerio «facciamo il programma dell’anno». Anzi, mentre registravamo, ogni tanto ci guardavamo e dicevamo «secondo te ci mandano in onda alla fine?». E una volta, stavamo per registrare un pezzo per la 19esima puntata, Valerio scherzando mi ha detto: «Vabbè, ma che lo registriamo a fare, qui è da mo’ che ci hanno chiuso». Non voglio rispondere per Valerio o Giovanni, ma io non mi aspettavo andasse così bene. Anche perché non abbiamo fatto un programma accomodante.
Molti dicono anche che avete fatto un programma inaspettato per la tv italiana. Per qualcuno, proprio un oggetto avulso dai palinsesti. Tu guardi la tv?
La guardo poco, ma non per fare la puzzona che dice «manco ce l’ho». Noi siamo cresciuti con la televisione, non avevamo i genitori che avevano la cultura del «solo mezz’ora, eh!». Solo che adesso è diverso, ci sono molte alternative alla TV, e molto più valide, con prodotti più validi.
Però, per certi versi, avete fatto molta parodia della tv.
Quando abbiamo fatto certe cose non volevamo essere matti per forza, o scorretti per forza, ma ritornavamo sempre a «noi cosa guarderemmo?». E siccome io e Valerio abbiamo un modo di fare ridere diverso, però abbiamo lo stesso senso dell’umorismo e abbiamo anche lo stesso senso del ridicolo – ci imbarazzano le stesse cose – allora abbiamo messo in scena quelle dinamiche che ci sono in alcuni programmi e che, per noi, sono imbarazzanti. A volte le abbiamo rifatte senza neanche parodiarle troppo, le abbiamo soltanto riproposte. E facevano ridere. Anche i tempi morti che ci sono nel programma, tutti totalmente voluti, erano un po’ una scommessa. Perché ormai la tv è tutto «ritmo, ritmo, ritmo, la gente cambia canale», invece quell’inadeguatezza, quei lenti anti-televisivi, da noi hanno funzionato. Creavano quell’imbarazzo che poi ti porta alla risata.
Un altro aspetto è che il vostro programma ha una vita che prescinde dai palinsesti, girano spezzoni sui social anche a prescindere dalla messa in onda.
Ci sono persone che hanno iniziato a guardare il programma, perché magari avevano visto un video su internet e hanno recuperato tutto il resto. Poi è stato anche un programma a cui hanno cambiato duemila volte la posizione, perciò la maggior parte delle persone se l’è visto su Raiplay. Ancora adesso mi scrivono «guarda, l’ho scoperto una settimana fa e mi sono fatto una maratona online». E con gli sketch sui meme sono arrivati anche i ragazzini a guardarci. Ma perché? Un ragazzino di 15 anni si guarda la televisione adesso? È solo un oggetto che si trova in salone.
Magari Il Collegio.
All’inizio andavamo in onda proprio dopo Il collegio. C’erano dei ragazzini che si fermavano, perché magari c’era Carl Brave, però poi vedevano l’intervista di Valerio e dicevano «ma questo è matto?».
È impossibile, oggi, parlare a tutti.
Quando ero ragazzina guardavo Pippo Chennedy, L’ottavo nano, Mai dire goal. Quei programmi incontravano il mio senso dell’umorismo, ma soprattutto l’hanno formato. Adesso non è che ci sia tutta questa offerta.
Erano proprio necessari per la vita sociale. Non potevi non vederli.
Li vedevano tutti i miei coetanei. A scuola ripetevamo Brunello Robertetti, oppure la Cortellesi, o Albanese che faceva Pier Peter. E a casa dovevi pure costringere i tuoi genitori a guardarli, perché non è che li riguardavi dopo con calma su Raiplay. Se li perdevi, il giorno dopo non avevi niente da dire agli amici.
Non c’è più quasi nulla in tv che è mainstream.
C’è internet a fare quel lavoro. Ma c’è talmente tanta offerta… io non ho la presunzione di pensare che il nostro programma formi il senso dell’umorismo, però è un’alternativa. Io, da pubblico, l’avrei guardato e sarei stata contenta di vederlo. Si dice spesso «non facciamo questa cosa perché il pubblico non la capisce» Ma il pubblico è fatto da tante persone diverse. A uno piace una cosa e un altro ne guarda un’altra. Se non si può fare più niente per tutti, almeno offriamo più alternative.
Questi ultimi 2-3 anni sono stati molto particolari per la comicità perché, su molti temi, c’è una sensibilità molto più accentuata. Siamo molto più permalosi e suscettibili. Tu hai avuto problemi legati a questo cambiamento oppure riesci a non pensarci?
L’unico freno, nella maggior parte dei casi, è il mio gusto. Non mi piace essere maleducata, né mi piace pensare di poter offendere qualcuno deliberatamente. Ci sono delle volte in cui qualcuno si può offendere comunque, però se sono serena con me stessa, vado tranquilla. Poi ovviamente mi succederà che una volta sbaglierò e offenderò moltissimo qualcuno… Ma quello che mi preoccupa di più non è tanto sentire «ormai non si può dire più niente», quanto il fatto che non ci sia più libertà di sbagliare. Parte subito la sassaiola e prima ancora di potersi giustificare «scusate, ho detto una cazzata» diventa subito «dimentichiamo tutto ciò che ha fatto o detto di buono questa persona».
Hai visto cosa è successo a Washington. La gravità della situazione è stata travolta da una mole di meme ironici, battute, foto. Immediatamente, quasi contemporaneamente.
A volte alle cose leggere e dichiaratamente umoristiche viene dato un valore didattico o divulgativo che non hanno. E vengono criticate perché le si accusa di mandare un messaggio sbagliato. Invece quando ci troviamo davanti a cose serissime o gravissime, tutti corrono a voler fare la battuta o la gag, smontando la gravità di quello che è accaduto. Come con l’assalto dell’altra sera. Oppure con un discorso politico preso da un comizio, che viene remixato. O l’opinione negazionista di una signora al mare. Cose gravi che diventano comiche e si fa a gara per farcele diventare. Invece, poi, a me si chiede di fare attenzione e di pormi dei problemi, quando il mio fine è dichiaratamente l’intrattenimento.
Quando hai fatto “Voci di donna”?
A un certo punto ho pensato «oddio, ma non è che penseranno che sto prendendo in giro le donne?». Perché mi è venuto il dubbio. Però ero anche tranquilla, perché in realtà stavo scherzando su un tipo di monologo dolente che si fa teatro, il cosiddetto monologo al femminile. Quegli spettacoli in cui ci sono sempre le attrici che devono tirare fuori i miti greci. E poi, alla fine, finiscono pure sempre col dire che noi donne siamo meglio degli uomini – e quindi dicono la stessa cosa che criticano.
Si capisce che scherzi su ambienti che ti sono vicini e familiari. Penso a “A piedi scarzi”.
Se lo avesse fatto un’attrice non romana, sarebbe risultata antipatica. L’ho fatto io, e la prima persona che pensavo di prendere in giro ero prorpio io. Ma poi è la presa in giro di un sistema. Come hai visto Alessandro Borghi, Claudia Gerini e Stefano Fresi sono stati splendidi e molto auto-ironici, e si sono prestati.
Tu hai fatto davvero teatro classico?
Ho iniziato col teatro classico e mi piace molto. Ma quella parodia la facevo già quando lavoravo nelle compagnie, dietro le quinte. Era già prepotente in me questa cosa. Magari facevo l’imitazione del regista, e subito dopo scherzavo sul “prendersi sul serio” dello spettacolo. Facevamo i primi 4 libri dell’Eneide, nella traduzione più simile al latino, con queste frasi lunghe sei chilometri, ma poi finivamo per recitare pure al tecnico industriale di Frascati davanti a ragazzi che ci strillavano «facella vedè, faccela toccà». E poi, quando ho cominciato a scrivere, mi sono accorta che la maggior parte delle cose che mi venivano erano ironiche.
E “Voci di donna” come nasce?
Dovevo fare uno spettacolo mio, a marzo, e l’inizio doveva essere così. L’avevo scritto in quel modo, ma con molte meno sciocchezze. Sembrava ancora più vero, ma solo perché volevo fare uno scherzo al pubblico, perché, nella mia intenzione, partivo così e immaginavo che tutti avrebbero detto «Madonna mia, che palle». E, a quel punto, mi sarei messa a ridere e avrei detto «sto scherzando, non è così lo spettacolo».
Ormai è difficile ridere dell’alto. Perché perfino chi è alto ormai si presenta in tutti i modi contaminato col basso.
Mi è capitato di vedere davvero dei “Voci di donna” a teatro, magari perché ero stata invitata. Sei lì a fine spettacolo e sei pure costretta a dire «beh, bel progetto, proprio un progetto interessante». Ma magari non hai capito niente e ti pare brutto dirlo per non sembrare ignorante. Un po’ la sindrome de “Le Vacanze Intelligenti”, quando dei turisti scambiano la moglie di Sordi seduta su una sedia per un’opera d’arte contemporanea. Il più delle volte, però, è semplicemente che una cosa che vorrebbe essere “impegnata” non è riuscita nell’intento.
Sembrava un buon momento per gli spettacoli comici dal vivo in Italia, ma la pandemia ha stroncato tutto.
Ho molta fiducia che si ricominci e – non so se per tenermi su di morale – considero questa come una pausa. Anche nel cinema. Ti ricordi quando c’è stata quella piccola finestra in cui hanno riaperto teatri e cinema? Io ci sono andata. Avevo un po’ paura, perché, ovviamente, venivamo da un lockdown molto duro. Però mi sono resa conto che quella paura mi spingeva a selezionare le cose per cui valeva davvero la pena uscire. Secondo me questa cosa resterà un po’. Era un problema che mi facevo anche prima – già mi chiedevo se valesse la pena uscire di casa per venirmi a vedere – adesso ancora di più.