Ho spesso l’occasione di incontrare gruppi di giovani colleghi partecipanti al nostro programma internazionale dedicato ai migliori talenti, che offre l’opportunità, nell’arco di un triennio, di ricoprire ruoli in strutture e geografie diverse.
Prima dell’incontro, oltre a consultare le informazioni gestionali presenti nelle nostre piattaforme HR, ho ormai l’abitudine di dare un’occhiata al loro profilo LinkedIn e ogni volta vedo confermata una tendenza.
Circa la metà delle persone indica come job title l’appartenenza al percorso di sviluppo più che al mestiere che sta svolgendo in quel momento.
Questo semplice esercizio ci fornisce un segnale chiaro: per molte persone essere un talento rappresenta un’etichetta da esibire che sostituisce o supera per importanza ciò che si sta facendo per l’organizzazione a cui si appartiene. Quasi una sorta di ritorno allo status di studente in viaggio premio che sale su una nave da crociera, che lo porterà in una magnifica destinazione dove godere di prospettive di successo.
Le conversazioni con i ragazzi mi aiutano a «validare l’assumption» che ho provocatoriamente appena proposto (uso questo termine tecnico perché appartiene a uno degli strumenti del metodo che troveremo nella Terza parte del libro) e mi consente di farli riflettere sul loro percorso, sul concetto di talento e soprattutto sulla necessità di sviluppare uno spirito e un approccio imprenditoriali all’interno dell’azienda.
Naturalmente l’occasione mi consente anche di vedere la talentuosità in azione e farmi piacevolmente sorprendere dalle qualità intellettuali, oltre che professionali, delle persone che ho di fronte.
Che cos’è il talento? È sicuramente un’attitudine innata e allenata a fare cose che ai più risultano difficili se non impossibili. Ma il talento, come caratteristica individuale, non è sufficiente se non intervengono delle condizioni abilitanti, personali e di contesto.
Una persona di talento ma priva di determinazione avrà meno chance di una persona coraggiosa e tenace pur senza un geniale talento, così come diceva Seneca: «La fortuna non esiste. Esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione».
Creare l’occasione è una responsabilità che riguarda le persone di valore, con la loro capacità di prendere l’iniziativa, e ancor più le organizzazioni, che hanno il compito di stimolare le persone ad alto potenziale a superare la propria zona di comfort, non trascurando le capacità disseminate in ciascuno.
Un’importante ricerca pubblicata dalla Society for Industrial and Organizational Psychology sostiene come le definizioni e i modelli di sviluppo del potenziale esistenti siano spesso focalizzati solo su alcuni fattori selezionati e prestino poca attenzione all’ampio spettro di potenziali talenti esistenti all’interno delle mura aziendali.
Il posizionamento su una corsia preferenziale non sempre porta a un’accelerazione della crescita di carriera, anzi. Talvolta l’idealizzazione che molte persone fanno del proprio talento, unita al peso delle attese nei loro confronti, può portare a pericolosi cortocircuiti. E il paradosso che in alcuni casi si presenta è che, in un’epoca in cui le aziende lottano per contendersi i soggetti migliori, per alcune persone essere riconosciute come talenti potrebbe rivelarsi una maledizione.
Questa tesi è argomentata da molti esperti fra cui la psicologa di Stanford Carol Dweck, che sostiene come spesso la preoccupazione per la propria immagine sia una conseguenza derivante dalla pressione per dimostrare il proprio talento.
Due docenti della business school francese INSEAD hanno stilato sul tema tre regole per gli high flyers, che personalmente condivido:
1. riconosci il tuo talento, non essere posseduto da esso;
2. porta al lavoro tutto te stesso, non solo il tuo io migliore;
3. valorizza il lavoro che stai facendo ora.
Il talento è spesso latente. Se investire sulle persone migliori è una necessità per le imprese, possono tuttavia verificarsi due effetti collaterali non trascurabili: da un lato emergono con più facilità coloro che rispondono completamente ai canoni tecnici e culturali stabiliti che definiscono in quel momento il talento, dall’altro si rischia di non considerare qualità e potenzialità non del tutto visibili che appartengono a tutte le persone.
Una di quelle che io chiamo “parole da guardare” rende immediatamente questo concetto. Sopra la parola “Talent” una freccia arcuata invita a invertire la “T” iniziale e la “L” rivelando un dato di fatto: il talento è spesso latente e per scoprirlo servono enzimi capaci di farlo emergere. Fra questi c’è l’inclusione, non solo letta attraverso le categorie conosciute (genere, cultura, religione, orientamento affettivo), ma come capacità di accogliere e abbracciare la diversità come risorsa che è fatta anche di competenze laterali e di pensiero critico.
Inoltre serve un approccio non tradizionale per far germogliare il potenziale latente, un approccio che affidi a chi ha la responsabilità di altre persone il compito, al tempo stesso, del maieuta e del moderno investigatore, capace di consentire alle persone di variare il proprio lavoro, combinando ruoli e attività e di creare un mercato interno di attività e progetti che possono essere sviluppati mettendo a fattor comune le migliori capacità spesso non visibili.
Ciò che emerge da questo quadro è una forte necessità di individuare nuove vie per far emergere un asset prezioso, ma spesso inerte.
La sintesi della riflessione sviluppata fin qui è che il talento non si forma, si sfida. Talenti mediocri hanno bisogno di direttori, grandi talenti hanno bisogno di abilitatori.
da “Startupper in azienda. Liberare il potenziale imprenditoriale nascosto nelle organizzazioni”, di Roberto Battaglia, Egea editore, 2021, pp. 321, euro 38