In tutto sono 500 video, selezionati per rilevanza e messi in fila secondo l’orario. Tutti filmati da chi era lì, parte della folla che il 6 gennaio ha assaltato il Campidoglio, a Washington, durante il tragico e grottesco tentativo di golpe trumpiano. Li hanno subito postati su Parler, l’alternativa di estrema destra a Twitter, social messo offline da Amazon, che lo ospitava sui suoi server (ma tornato su internet il 18 gennaio). Il sito di inchieste ProPublica li ha raccolti ed esaminati, per pubblicarli poi in un database navigabile a disposizione di tutti.
Quello che è successo è un fatto senza precedenti, spiegano. Ed è senza precedenti anche la quantità di documenti video che lo mostrano. Riportarli alla luce, ordinati e introdotti, non vuole certo essere una celebrazione di quanto è accaduto. Al contrario, immergersi per ore nelle immagini create e postate dai supporter di Trump è insieme un modo per districare, da tutte le angolature possibili, quello che è accaduto in quel giorno. Ma è anche un tuffo nel mondo paranoico, violento e parallelo del suo elettorato.
Quello che ne esce è un affresco variegato. Ci sono scene di scontri con la polizia (e altrettanti inviti a lasciare stare la polizia), spari e granate stordenti «Stanno per rompere le porte. La cosa si fa seria. Qualcuno oggi potrebbe morire. Niente di buono», dice uno dei manifestanti. Da un altro punto di vista (e con uno spirito ben diverso), si sente commentare: «Ci stanno sparando contro proiettili e granate. Ma non c’è niente che possono fare».
Nella folla alcuni si defilano, rimangono ai margini a filmare e documentare, come se fosse la cronaca di un combattimento sulle Ardenne. Ci sono vecchi e nuovi sostenitori di Trump, padri di famiglia e giovani scatenati, ex militari e membri di milizie suprematiste. In questo caos nessuno si preoccupa di coprire il volto, anche perché Parler, con la sua insularità, li ha convinti di essere uno spazio sicuro. Non lo è.
Come spiega Propublica, quello che avviene sui gradini del Campidoglio è il risultato di una lunga stagione di retorica violenta e pseudo-rivoluzionaria. Le sue radici sono nei primi comizi del 2016, quando l’allora candidato Donald Trump comincia a dispiegare i suoi temi più forti: i messicani che portano eroina, i democratici che rubano le elezioni (che si dimostrerà longevo), la «palude» del Congresso. Tutte parole d’ordine che si ammassano su slogan e su hashtag, costruite quasi come una regia per convergere al giorno finale: quello dell’assalto.
In quel momento, tra gli spari e gli scontri, la folla trumpista senta di essere salita sul palco di una storia, quella che si ripetevano con poche variazioni da qualche anno, pronti a entrare in scena per l’atto finale.
Come è ovvio, è solo il risultato di una ubriacatura retorica, e le immagini di Parler lo dimostrano. Gli assaltatori parlano a una comunità, condividono parole d’ordine, si rifanno a mitologie (il Kraken) condivise.
Ma nonostante la foga, le divisioni e le acconciature variopinte, i golpisti del presidente più inadeguato degli Stati Uniti sono altrettanto inadeguati: entrati nelle sale del Congresso, sembrano disorientati e stupiti. Alcuni non sanno nemmeno definirlo in modo corretto («questo è il Campidoglio di Stato»). Nessuno conosce la strada. C’è quello che raggiunge la Cupola si perde e non sa cosa fare e le sue immagini sono quelle di un turista. C’è l’altro che prende un telefono e chiede di parlare con Nancy Pelosi. Altri si lasciano guidare, come in un tour, dal poliziotto Eugene Goodman, che riesce a portarli lontano dalla camera del Senato. E quando alla fine ci arrivano, in piedi in mezzo ai seggi, non sanno cosa fare e cosa dire.
E tra questi, c’è chi comincia a distruggere quello che gli capita a tiro, e qualcuno li rimprovera: «Non è per questo che siamo qui» (e la domanda aleggia: e per cosa sono lì, di grazia?)
Ma alla farsa si è aggiunta la tragedia. Muoiono cinque persone (più uno suicida qualche giorno dopo), al notizia dello sparo ad Ashley Babbitt rimbalza in fretta, i particolari si confondono e le reazioni si fanno diverse. Alcuni sono colpiti. Altri del tutto indifferenti, e cercano soltanto di mostrare quanto siano stati eroici nello scontro con le forze dell’ordine. È un magma caotico di persone male organizzate e violente guidate da persone bene organizzate e violente, sotto lo sguardo di un capo politico inquietante.
Vedere lo stesso evento da 500 punti di vista diversi, come consente di fare ProPublica, permette di penetrare, almeno in parte, in un universo complesso e inquietante, dove surreali scambi civili («Scusi se l’ho urtata») si alternano a slogan violenti, dove gli scontri con la polizia si avvicendano a chi chiede di non rompere i vetri delle finestre del Campidoglio. Tutti lì, riuniti a formare un popolo raccogliticcio e composito, sono la dimostrazione, quasi scientifica, degli esiti cui conduce la retorica violenta.