Non è facile capire, dopo tante incertezze, quale sia stata la molla decisiva che abbia infine convinto Giuseppe Conte ad annunciare l’intenzione di dimettersi. È probabile che a pesare sia stata più che altro la raggiunta consapevolezza di non potere accontentare tutti, o forse anche di non volerlo fare, almeno non oltre un certo limite, posto per così dire a metà tra il senso delle istituzioni e il senso del ridicolo. Un limite che forse lo stesso presidente del Consiglio ha temuto di avere superato leggendo la dichiarazione del senatore Lello Ciampolillo battuta ieri dalle agenzie: «Ho proposto a Conte di diventare vegano, gli interessa».
Quale che sia stata la motivazione principale, il no a Renzi o il no al tofu, sta di fatto che oggi Conte, dopo il Consiglio dei ministri, salirà al Quirinale per rassegnare le dimissioni: un piccolo passo per un uomo, un grande passo in avanti per la democrazia italiana.
Qualunque esito abbia infatti la crisi, fosse anche uno sbiadito Conte ter, sarà certamente un progresso sulla via del recupero dalla terribile deriva populista culminata nell’infausto esito elettorale del 2018. E questa, per paradossale che possa sembrare, è anche la ragione del comportamento tenuto dal Partito democratico – a onta del suo nome – che si è mostrato sin qui molto più contiano dello stesso Movimento cinque stelle.
Una sostituzione di Conte, adesso o anche tra qualche mese, al termine di un altro stanco giro della stessa giostra, lascerebbe infatti i vertici del Partito democratico privi della loro unica strategia, alla quale hanno fin qui subordinato ogni altra richiesta, proposta, punto di principio o di programma, e cioè il «nuovo centrosinistra» fondato sull’alleanza con i grillini e la leadership di Conte.
Anche perché il ruolo dell’Avvocato del popolo in quel disegno non è una parte che chiunque altro possa recitare al suo posto, tanto meno esponenti del Movimento cinque stelle che con il Partito democratico hanno avuto in questi anni rapporti ben più conflittuali di Conte, e non sarebbero accettati allo stesso modo (per non parlare della questione degli indici di consenso personale dell’attuale capo del governo, che né Luigi Di Maio, né Roberto Fico, né alcuno dei loro compagni di partito sembrano in grado di eguagliare).
Se poi a tutto questo si aggiungesse quella legge elettorale proporzionale di cui si parla da tempo – davvero proporzionale, cioè senza coalizioni prefabbricate prima del voto – ecco che l’intera costruzione bettinian-zingarettiana (per tacere dei volenterosi complici di Liberi e uguali) svanirebbe d’un tratto.
Questa è la ragione, comprensibile, dell’angoscia che sembra agitare oggi i vertici del Partito democratico, ma è anche la ragione per cui tutti i democratici (con la minuscola) dovrebbero gioire. Solo così, infatti, si aprirebbe per l’Italia perlomeno la speranza di poter uscire dalla crisi populista come ne sono usciti negli Stati Uniti, vale a dire con la costituzione di un fronte democratico e progressista fermamente e implacabilmente contrapposto al fanatismo trumpiano, senza compromessi.
Allontanando dunque lo spettro di una deriva para-ungherese della nostra democrazia, costretta a scegliere tra un centrodestra a guida salviniana e uno pseudo-centrosinistra a guida grillina. Speriamo.