Meno allegra della partita a scacchi con la morte del Settimo sigillo di Bergman, quella fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi continua a trascinarsi nel crescente disinteresse di un Paese prigioniero di una pandemia che continua a correre e i connessi problemi che si attorcigliano: e ogni giorno sembra quello decisivo e non lo è mai – «La gente è stufa», ammette Renzi, che però non si decide a staccare la spina.
Si litiga ma non si rompe, come nelle storiche trattative sindacali – resistere un minuto in più dei padroni, dicevano gli operai. Ma qui abbiamo un pezzo di ceto politico contro altri pezzi di ceto politico, e la società assiste, stranita. Sono volate parole grosse al defatigante vertice di ieri sera, con i renziani su di giri, il premier che promette, annuncia, frena, i dem in mezzo nervosi- anche al Nazareno se ne dicono tante, crisi, Conte ter, rimpasto – e insomma ognuno accusa l’altro di perdere tempo e ognuno dice di volerla chiudere presto. Una Babele.
Il punto è che non si capisce più su cosa si debba decidere. Conte annuncia un nuovo documento, ma allora finora su che si è discusso? Al Recovery plan, che non c’è, Renzi ha aggiunto il Mes, una carta che appare e scompare come fosse fra le mani del mago Silvan, e ieri sera è spuntato anche il Ponte di Messina: ma è sempre più chiaro che c’è dell’altro. E questo “altro” ha innanzi tutto le fattezze di Giuseppe Conte che per Renzi non è solo il Grande Frenatore («È dal 22 luglio che gli abbiamo chiesto di accelerare») ma una figura avvolta dalle spire opache di certe iniziative americane, quasi un problema per la democrazia.
Renzi ne fa ormai una questione connessa alla sicurezza nazionale, ritornata fuori con ancora maggiore forza dopo l’attacco alla democrazia americana perpetrato da un Donald Trump che il mondo ormai giudica un uomo pericoloso, un pazzo, tranne appunto Conte che si è ben guardato dal condannarlo con tanto di nome e cognome: un fatto che la nuova Amministrazione di Joe Biden avrà certamente annotato e di cui si ricorderà, e non è un caso – osserva qualcuno bene informato – che la grande offensiva renziana sia esplosa dopo il mortale 3 novembre di Trump come a voler segnalare al nuovo presidente americano che in Italia il riferimento è lui è non l’ambiguo Giuseppi.
Allora è evidente che si gioca a scacchi ma l’esito è comunque quella di una crisi politica, probabilmente formale, e che il problema è come arrivarci.
Può darsi che si arrivi al crash finale nell’arena di palazzo Madama, la “bomboniera” storicamente sede di dibattiti dotti e tranquilli diventata da qualche anno il Madison Square Garden dei grandi match della Terza Repubblica, ultimo grande combattimento quello dell’anno scorso fra Giuseppe Conte e Matteo Salvini, roba ingiallita: oggi la foto immortalerà sempre Conte contro Renzi.
Ma per l’avvocato senza popolo si tratta di scegliere fra la brace di un governicchio con la Sandra Mastella al posto di Domenico Scilipoti e la brace di una clamorosa e definitiva uscita da Palazzo Chigi. A meno di un clamoroso dietrofront di Italia viva infatti non si vede come il desiderio del Pd di andare avanti possa essere esaudito, giacché i voti di Renzi non hanno reali sostituzioni. Il problema del Pd è che non ha ancora capito cosa vuole fare da grande.
Se reggere la coda dell’avvocato o tentare la scommessa delle urne: come al solito l’eccesso di tatticismo alla fine annebbia la vista di Nicola Zingaretti che un giorno fa quadrato attorno a Conte spronandolo alla grande battaglia parlamentare e il giorno dopo pare voler rimettere tutti intorno a un tavolo, come gli consiglia il prudente Graziano Delrio, certo non insensibile alle questioni di merito poste da quel Renzi di cui fu braccio destro. E mentre si gioca a scacchi il tempo passa, prepariamoci ad altre giornate estenuanti.