In Bhutan il coronavirus è arrivato con un anno di ritardo. Il primo morto di Covid-19 è stato registrato ufficialmente lo scorso 7 gennaio. Non perché la piccola monarchia che sta tra il Tibet e l’India sia stata in qualche modo immune alla pandemia per tutto il 2020, ma si è rivelata un esempio perfetto di come uno Stato dovrebbe prevenire e contrastare una malattia infettiva.
La storia dell’ultimo anno del Bhutan è stata ricostruita da Madeline Drexler sull’Atlantic che ha scritto un lungo articolo che nasce da una buona conoscenza del territorio – da anni scrive articoli sul Bhutan, dove ha viaggiato tre volte dal 2012 a oggi – e della materia, dal momento che è anche autrice del libro “Emerging Epidemics: The Menace of New Infections”.
L’articolo ripercorre le mosse del regno e prova a individuare degli insegnamenti per i Paesi europei e nordamericani, che a dispetto di quel che si dice dei loro sistemi sanitari hanno sofferto molto di più da questa pandemia.
Il Bhutan non è l’unico Stato ad aver contrastato egregiamente il virus: il Vietnam conta 35 morti, il Ruanda 226, il Senegal circa 700. Queste nazioni offrono molte lezioni, dice Drexler: «Dall’importanza di una leadership attenta alla necessità di garantire che le persone abbiano provviste e mezzi finanziari sufficienti per seguire le linee guida della salute pubblica, fino al senso di comunità che porta ogni cittadino ad accettare di sacrificare qualcosa per proteggere il benessere di tutti: elementi che sono stati particolarmente carenti in buona parte del mondo occidentale».
Ma soprattutto, si chiede l’autrice, «come ha fatto il Bhutan, una piccola nazione povera conosciuta al massimo per lo stravagante indice Felicità Nazionale Lorda, che bilancia lo sviluppo economico con la conservazione ambientale e i valori culturali, ad amministrare così bene una situazione del genere?».
Il primo passaggio per comprendere la gestione dell’epidemia da parte del Bhutan è un aspetto culturale. «Una parola che ho sentito innumerevoli volte nei miei viaggi in Bhutan è stata “resilienza”. È un riferimento al fatto che il Bhutan non è mai stato colonizzato e alla capacità della sua gente di sopportare le difficoltà e fare sacrifici. Ho imparato che la resilienza è il fulcro dell’identità nazionale», scrive l’autrice.
Poi entra nel merito della gestione sanitaria. Ci sarebbero state tutte le condizioni per fare del regno asiatico uno degli Stati più in difficoltà: un Paese che conta 337 medici per una popolazione di 760mila abitanti – ben al di sotto del rapporto raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità – e solo uno di questi aveva una formazione vera e proprio sull’utilizzo della terapia intensiva. Il Bhutan aveva appena 3.000 operatori sanitari e una macchina per fare i tamponi: era già sulla lista dei Paesi meno sviluppati dell’Onu.
Un vantaggio, se si può definire tale, potrebbe essere stata la frontiera chiusa, ormai da decenni, con la Cina. Ma dall’altro lato c’è un confine di 435 miglia con l’India, che oggi conta il secondo numero più alto di casi registrati al mondo – con il quarto numero più alto di morti segnalate.
Un fattore chiave nella gestione dei contagi è stata la rapidità di azione: «Il 31 dicembre 2019 la Cina ha segnalato all’Oms per la prima volta un’epidemia di polmonite con causa ignota. L’11 gennaio successivo il Bhutan aveva già iniziato a redigere il suo Piano nazionale di preparazione e risposta e il 15 gennaio ha iniziato lo screening per i sintomi di disturbi respiratori e stava usando la scansione della febbre a infrarossi nel suo aeroporto internazionale e in altri punti di ingresso».
Il primo positivo al Covid-19 il Bhutan l’ha registrato ufficialmente il 6 marzo scorso, era un turista americano di 76 anni. Da quel momento è partita una catena di contact tracing che ha interessato 300 potenziali contatti che sono stati rintracciati e messi in quarantena. La rapidità, spiega Drexler, è stata fondamentale: il tracciamento dei contatti, con successivo isolamento, è avvenuto in appena 6 ore e 18 minuti. «Deve essere stato un record», ha detto il ministro della Salute Dechen Wangmo, un epidemiologo laureato a Yale, al quotidiano nazionale Kuensel.
Da qui il governo bhutanese si è mosso con metodi che ricalcano uno schema simile a quello di altri Paesi: «Ogni giorno l’esecutivo ha pubblicato aggiornamenti sulla gestione della pandemia, ha ribadito ai cittadini i numeri per l’assistenza telefonica. Poi ha vietato l’ingresso ai turisti, chiuso scuole, palestre, cinema e altre istituzioni, favorito lo smart working e ripetuto senza sosta la necessità di indossare mascherine per il viso, di lavarsi sempre le mani e di tenersi in forma il più possibile», si legge sull’Atlantic.
Quando a marzo l’Organizzazione mondiale della Sanità ha parlato ufficialmente di pandemia il Bhutan ha istituito la quarantena obbligatoria per tutti i cittadini che erano stati potenzialmente esposti al virus e ha isolato i positivi – anche gli asintomatici. La quarantena prevista dal governo bhutanese, però, è più severa di quella prevista dall’Oms: «A fine marzo i funzionari sanitari hanno esteso la quarantena obbligatoria da 14 a 21 giorni, una settimana in più rispetto a quanto raccomandato dall’Oms: dopo 14 giorni c’è l’11% di possibilità che una persona possa ancora incubare l’infezione e quindi essere ancora contagiosa», dice Madeline Drexler.
Anche in Bhutan c’è stato un ricorso massiccio all’assistenzialismo. Ad aprile, il re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck ha stanziato un fondo che finora ha distribuito 19 milioni di dollari a più di 34mila bhutanesi che hanno subito particolarmente gli effetti della pandemia, ad esempio per la chiusura della propria attività commerciale. Inoltre il governo ha creato un registro nazionale per i cittadini più vulnerabili – un elenco di oltre 50mila persone di età superiore ai 60 anni – e ha inviato loro pacchetti sanitari con disinfettante per le mani, vitamine e altri prodotti.
L’Atlantic ha intervistato un giornalista locale, che ha trovato una delle chiavi di lettura più importanti per comprendere il successo della strategia bhutanese: «Mi sono sempre lamentato di quanto possa essere soffocante vivere in un Paese così piccolo. Ma credo che questo ci abbia tenuti insieme: forse in nessun altro Paese i leader politici e i cittadini godono di una tale fiducia reciproca».
Nonostante le condizioni del Bhutan non siano necessariamente replicabili altrove, soprattutto per la dimensione del territorio e della popolazione, l’autrice dell’articolo individua nella gestione della pandemia da parte della monarchia asiatica cinque elementi che potrebbero tornare utili anche ad altre nazioni.
«In primo luogo i leader politici dovrebbero essere consapevoli di quel che accade: i cittadini del Bhutan hanno ricevuto istruzioni affidabili, intelligenti e pratiche dal re, che ha dialogato con il governo e sollecitato i funzionari per piani dettagliati che coprissero ogni possibile scenario di pandemia», scrive Drexler.
Poi l’esperienza bhutanese insegna l’importanza della prevenzione, quindi della preparazione a eventi di questo tipo: «Il Paese ha istituito un centro operativo di emergenza sanitaria e un centro operativo di emergenza dell’Oms nel 2018. Nel 2019 ha aggiornato il suo Royal Center for Disease Control, equipaggiandolo per gestire le epidemie e nuove malattie infettive».
Il terzo e il quarto punto riguardano la tempestività delle contromisure e la capacità di valorizzare le forze a disposizione: «Bisogna agire in fretta e guadagnare tempo, e poi concentrare tutte le energie possibili: quando è stato chiaro che un solo medico con conoscenza di terapia intensiva non sarebbe bastato, il Bhutan ha subito istruito altri medici e infermieri sulla gestione clinica delle infezioni respiratorie e sui protocolli dell’Oms. Insomma, utilizza le risorse che hai».
Infine uno degli argomenti di discussione principali in ogni singolo Paese del mondo: consentire alle persone di seguire effettivamente le indicazioni della sanità pubblica, ma fornendo loro un adeguato supporto economico e sociale per permettergli di affrontare la quarantena.