Propaganda onlineLe fake news di Russia e Cina contro l’Unione europea sul Covid-19

Secondo il Servizio europeo per l'azione esterna da maggio a novembre le offensive in Rete di Mosca e Pechino hanno cercato di screditare i vaccini comprati preventivamente da Bruxelles. Ci sono stati almeno 640 esempi di disinformazione

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«In guerra, la verità è la prima vittima». La massima di Eschilo vale anche per l’emergenza sanitaria. Durante la pandemia, online sono proliferate teorie del complotto e il negazionismo è stato alimentato anche dalla disinformazione di Stato. In misura diversa, Cina e Russia hanno cercato di influenzare il dibattito pubblico europeo. Se inizialmente le offensive miravano a mettere in dubbio le origini del coronavirus o screditare la risposta dei governi occidentali, oggi si concentrano sulla corsa alla cura. È l’altra faccia della «diplomazia del vaccino». 

È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto speciale dello European External Action Service (EEAS), il servizio a capo della politica estera e di sicurezza dell’Unione europea. Il dossier è cruciale perché copre i mesi da maggio a novembre: quelli delle riaperture graduali e del futuro da ripensare, ma anche della seconda ondata e delle nuove restrizioni. Un arco di tempo incandescente in termini di tenuta sociale. Aveva innescato tensioni internazionali la puntata precedente, ad aprile, quando l’alto rappresentante Josep Borrell ammise pressioni di Pechino per annacquare le scoperte dell’intelligence comunitaria. 

Sul fronte russo, nel corso dell’estate le fake news sulla Covid-19 come creazione di laboratorio o prodotto delle élite globaliste sono state sostituite dalla propaganda sulla formula messa a punto da Mosca: Sputnik V, un’operazione autocelebrativa fin dal nome. Specularmente, media vicini al Cremlino hanno infangato i progetti di ricerca concorrenti. Un caso limite, ma da prima serata in Russia, è stato inventare che il siero di Astrazeneca potesse trasformare i pazienti in scimmie perché testato anche sugli scimpanzé. Corredata da meme, la campagna si è concentrata su nazioni considerate mercati contendibili alle case farmaceutiche occidentali (come India, Brasile, Egitto, Messico, Filippine, Vietnam e Perù). Il governo egiziano ordinò 25 milioni di dosi. 

Un classico della narrazione filoputiniana è stato magnificare la gestione russa o cinese con l’obiettivo di delegittimare le misure dei singoli Stati membri. In Italia, per esempio, Sputnik ha amplificato sacche di malcontento locali o attaccato come prive di «fondamenti scientifici» le limitazioni dei vari Dpcm. Prove a riguardo? Nessuna. Al massimo interviste a presenzialisti controversi, come Giulio Tarro. Osservare le regole o indossare la mascherina non serve a nulla, era l’adagio. Queste «testate» hanno speculato sulla crisi alla vigilia del secondo lockdown, mentre tornavano a riempirsi le terapie intensive e i morti aumentavano.  

I danni vanno moltiplicati per ogni lingua dell’arsenale, una nebulosa di portali che triangola gli stessi contenuti nel pianeta, dai Balcani al Medio Oriente, dalla Turchia all’Australia. Da solo, lo EEAS ha censito nel suo database 640 esempi di disinformazione, con 230mila condivisioni sui social. Un altro think tank, l’International Fact Checking Network, ha contato quasi diecimila menzogne. Su tutte, quelle fabbricate in un report pubblicato dai separatisti filorussi sul sito della Repubblica Popolare di Lugansk, dove si sosteneva che il vaccino americano avesse ucciso alcuni dei volontari cui era stato somministrato nei test. Falsità circolate anche nel nostro Paese

La strategia cinese è diversa. Duplice. Da un lato c’è un’operazione di restyling della reputazione geopolitica di Pechino, che ha da subito enfatizzato i contagi contenuti con successo e ha poi inviato aiuti all’estero. Era la «diplomazia della mascherina». Ora siamo nella fase del vaccino e la superpotenza è entrata nel secondo tempo, dettando lo spartito all’informazione. L’espansione diplomatica passa dal garantire partite di fiale a Paesi in via di sviluppo, in Africa e America Latina, ma anche nel sudest asiatico, come in Malesia.

Dall’altro, il partito comunista ha sistematicamente tentato di negare la nascita a Wuhan del coronavirus. È ancora online un post emblematico del People’s Daily, il principale quotidiano cinese, dove si avvalora questa teoria. Il depistaggio prova a riscrivere la storia: in questa visione artefatta, sarebbero d’importazione i primi casi riscontrati nella provincia. L’intento è scrollarsi di dosso la nomea di «focolaio del mondo», addossandola agli altri «grandi malati» di marzo, come l’Italia. Quando l’Australia ha invocato un’indagine indipendente, Pechino ha reagito con ritorsioni commerciali da centinaia di milioni di dollari. 

Russia e Cina non sono gli unici responsabili della «infodemia», ma sono i due giganti più rilevanti – leggasi ostili – nella prospettiva europea. La sproporzione è netta. Secondo l’Oxford Internet Institute, sono oltre 8 mila i video che hanno inquinato la verità sul coronavirus. Sono stati condivisi almeno 20 milioni di volte: un volume superiore a quello generato dalle prime cinque testate autorevoli in lingua inglese su YouTube. Sui social meno mainstream va anche peggio, come ha messo in luce Nature

Sul generalista Facebook, nel corso del 2020 il materiale complottista in grado di appestare almeno cinque nazioni ha capitalizzato 3,8 miliardi di views. La fonte è la no-profit Avaaz, che definisce l’algoritmo del social una «minaccia alla salute pubblica» in un report dove accusa la piattaforma di non aver difeso i suoi utenti. Per tornare in Europa, 2 milioni di cittadini tedeschi sono iscritti a gruppi Facebook dove la pandemia viene minimizzata. 

Il problema è che la disinformazione paga. È un parassita di quelli che Victor Pickard chiama «deserti dell’informazione» (Democracy without Journalism?:Confronting the Misinformation Society, ed. Oxford), mentre il giornalismo tradizionale agonizza. I siti discarica su cui vengono caricati gli articoli tossici, quest’anno, hanno fruttato 350 mila dollari al mese ciascuno, stando al Global Disinformation Index.

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