Una felice intuizione, non c’è che dire, la ripubblicazione della traduzione italiana del classico murrayano “We Hold These Truths. Catholic Reflections on the American Proposition” in contemporanea con l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca.
Il merito è nuovamente delle casa editrice Morcelliana, che nel 1965 diede per la prima volta alle stampe l’opera col titolo “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano”.
Ma questa volta anche e soprattutto di Stefano Ceccanti, costituzionalista, ordinario di Diritto pubblico comparato alla Sapienza e deputato del Pd, che ne ha curato l’introduzione, la bibliografia aggiornata e la scheda prosopografica dell’autore, il gesuita John Courtney Murray.
Non si può infatti non rilevare che, se l’edizione originale della raccolta di saggi sulla libertà religiosa per i tipi Sheed and Ward vide la luce nella seconda metà del 1960 – l’imprimatur del vescovo di Burlington, Robert F. Joice, reca la data del 18 giugno di quell’anno – la prima versione italiana a opera dell’editrice cattolica bresciana, cofondata nel ’25 da Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI), fu pubblicata nell’anno di chiusura del Vaticano II.
Anno cruciale quel 1965, che, il 7 dicembre, avrebbe visto tra enormi contrasti l’approvazione finale e la promulgazione della Dignitatis Humanae. Ispirata proprio da Murray – che con disappunto del “carabiniere del Sant’Uffizio”, il cardinale Alfredo Ottaviani, era stato nominato perito conciliare da un porporato peraltro conservatore come Francis Joseph Spelmann – la dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa fu nodo cruciale delle contestazioni di larga parte del Coetus Patrum Internationalium e, soprattutto, di quelle dell’arcivescovo Marcel Lefebvre, poi maturatesi nel famoso di lui scisma.
Non a caso Paolo VI aveva voluto che il voto preliminare al testo (1997 voti favorevoli e ben 224 quelli contrari) avvenisse il 21 settembre 1965 «in vista – così giustamente Ceccanti – del già programmato viaggio negli Usa che prevedeva come passaggio-chiave il discorso all’Onu del 4 ottobre».
Insomma, come osserva sempre il deputato del Pd nell’accurata introduzione, dell’opera di Murray «l’edizione originale accompagna un’elezione presidenziale, la traduzione accompagna l’evoluzione conciliare».
L’elezione presidenziale è quella di John Fitzgerald Kennedy, che, annunciata la sua candidatura il 2 gennaio 1960, avrebbe battuto, l’8 novembre, lo sfidante repubblicano Richard Nixon.
Strettissimo il legame tra Murray e colui che durante la campagna elettorale aveva ribadito: «Io non sono il candidato cattolico alla presidenza. Sono il candidato del Partito Democratico, che si dà il caso sia anche cattolico», al punto tale che il 12 dicembre il Time dedicò al teologo gesuita la copertina col titolo “U.S. Catholics & The State” (I cattolici americani e lo Stato).
D’altra parte, come comprovano i puntuali riferimenti documentali addotti da Ceccanti, è oramai storicamente innegabile il ruolo materiale di Murray nella stesura del celebre discorso, che Kennedy aveva tenuto il 12 settembre alla folta platea di pastori protestanti della Greater Houston Ministerial Association riuniti presso la Rice University.
Punto centrale del discorso restano il passaggio: «Io credo in un’America in cui la separazione tra Chiesa e Stato sia assoluta, in cui nessun sacerdote cattolico dica al presidente, qualora questi sia cattolico, come comportarsi e in cui nessun ministro protestante dica ai suoi fedeli per chi votare» e l’appello finale: «Vi chiedo di giudicarmi su tutto ciò e non sulla base di quei proclami e di quelle pubblicazioni che, come abbiamo visto tutti, isolano dal loro contesto citazioni tratte da dichiarazioni dei responsabili della Chiesa cattolica, formulate generalmente in altri Paesi e spesso in altri secoli. Ma naturalmente omettono sempre di ricordare la dichiarazione dei vescovi americani del 1948, in cui si sostiene con forza la separazione tra Stato e Chiesa e che riflette con maggiore precisione la visione di tutti i cattolici americani».
Il modello americano, ribadito da Kennedy e portato a esempio da Murray sin dal 1945 come l’unico capace di offrire una soluzione conciliativa alle tensioni tra religione e vita pubblica, trova il suo fondamento nella Costituzione degli Stati Uniti e, in particolare, nel I emendamento con le cosiddette clausole del “no establishment” e del “free exercise”. Vale a dire in soldoni, separazione istituzionale tra Stato e Chiesa e libertà di professare la propria fede religiosa in pubblico.
Per Murray questi due principi e il costituzionalismo americano nel complesso sono debitori in larga parte a un’impostazione lockiana, a sua volta ispirata a sant’Agostino e a san Tommaso d’Aquino.
La non comprensione da parte di un magistero, che, sviluppando quanto premesso nella Mirari vos (1832) di Gregorio XVI, si era soprattutto cristallizzato nel Sillabo (1864) di Pio IX con la condanna tout court del principio della separazione tra Chiesa e Stato e del libero esercizio dei culti, rispondeva in realtà a una visione sempre più antistorica del rapporto tra potere statale e potere religioso. Una visione inficiata dallo spettro della tradizione giacobina in materia di religione, che avevano soprattutto conosciuto e sperimentato i vecchi Stati confessionali europei, a partire da quello pontificio.
Di una tale incomprensione di fondo verso la tradizione liberale in materia di religione aveva dato soprattutto prova Leone XIII con la Testem benevolentiae (22 gennaio 1899), in cui si condannava come eresia l’americanismo. Lettera pastorale alla quale replicarono con fermezza il cardinale James Gibbons, arcivescovo di Baltimora, e non pochi prelati d’Oltreoceano.
Murray trovò il superamento di una tale antitesi proprio nel dettato costituzionale statunitense, distinguendo già nel 1954 con l’articolo “Civil Unity and Religious Integrity: The Articles of Peace” (poi confluito come secondo capitolo nel libro del 1960) tra tradizione liberale americana e la tradizione giacobina francese: «La tesi americana è che il governo non può essere giuridicamente onnipotente; che i suoi poteri sono limitati e che uno dei principi che regolano questa limitazione è appunto la distinzione tra Stato e Chiesa nei loro scopi, metodi, e forme di organizzazione. La tesi giacobina era essenzialmente filosofica e derivava dal concetto settario dell’autonomia della ragione, ma era anche una tesi teologica, in quanto implicava una concezione settaria della religione e della Chiesa. La tesi americana è invece soltanto politica; sostiene il principio di un popolo libero soggetto ad un governo controllato, principio che si riconosce partecipare della tradizione politica cristiana e che si può anche difendere in rapporto alle sue concrete realizzazioni nella storia americana».