Goodbye Yellow Brick Road. Beffarda ironia della sorte, negli ultimi giorni Elton John avrà rivissuto i versi iniziali del suo brano del 1973, che racconta del nostalgico ritorno alle origini e alla fattoria di casa, e dell’abbandono di una strada lastricata di fama e successo (i mattoni gialli, tributo al pavé che conduceva nell’incantata città del Mago di Oz). Una metafora non voluta al servizio del progetto Brexit – un ritorno alla gloria nazionale recintata dai confini dell’isola -; non voluta soprattutto ora che le prossime vittime designate del nuovo corso dei rapporti tra Regno Unito e Unione europea sono lo spettacolo dal vivo e le tournée internazionali.
Sir Elton non se l’è fatto ripetere due volte (s’era già scagliato contro la Brexit a Verona, due anni fa: «Sono europeo; non uno stupido inglese imperialista»). E con lui è scesa in campo tutta l’artiglieria pesante dell’industria musicale d’Oltremanica – un valore stimato di 6,4 miliardi di euro, fra gli asset strategici più importanti del Paese -.
«L’esecutivo britannico ci ha deluso»: il pensiero non solo di Elton John, ma anche Liam Gallagher, Ed Sheeran e due vecchi leoni come Brian May dei Queen e Roger Waters dei Pink Floyd, e di un altro centinaio di musicisti è stato affidato a una lettera-appello a Downing Street pubblicata sul Times. «Tornate indietro e rinegoziate l’accordo con l’Unione europea».
Non tutte le 1246 pagine validate per il rotto della cuffia il pomeriggio della Vigilia di Natale, sia chiaro, ma perlomeno gli aspetti che riguardano più da vicino i musicisti e, in generale, gli operatori della cultura. La musica, infatti, fa la voce grossa, ma il problema tocca tutti i professionisti e i lavoratori delle arti performative e dello spettacolo dal vivo, i cui bauli sono stati serrati dalla pandemia, ma potenzialmente anche gli scambi culturali e le residenze d’artista. Senza una previsione dedicata agli artisti, si applicano le regole generali dell’accordo tra Londra e Bruxelles, che mette fine – come propagandato dai Brexiteer – alla libertà di movimento. Un danno tutto da quantificare per i performer e tutto l’indotto dell’industria culturale britannica, abituata anche a mesi di tournée con fra le venti e le trenta tappe nel resto del Vecchio continente.
La burocrazia post-Brexit, oltre all’incertezza dovuta ai visti che si rendono necessari anche per gli artisti e pure per brevi soggiorni, aggiungerebbe oneri amministrativi ed economici per il trasporto di attrezzature e merchandising: una ghigliottina soprattutto per chi opera su scala medio-piccola. Insomma, quando, nella seconda metà del 2021, si potrà vedere la fine del tunnel della pandemia e immaginare un ritorno in sicurezza sul palcoscenico, tutto un settore potrebbe non tornare in scena a causa della Brexit.
Tra Regno Unito e Unione europea si è aperta, manco a dirlo, la solita guerra dello scaricabarile. Ha iniziato Londra, che – per farsi scudo dalla montagna di critiche che cominciavano a montare in patria per via della mobilitazione dei volti noti – ha accusato Bruxelles di non aver voluto accettare la proposta di uno schema di esenzione dei visti per i lavoratori della cultura. «Falso», il laconico commento Ue: Bruxelles aveva semmai offerto la possibilità di adottare, come accade già in altri accordi con Paesi terzi, dei lasciapassare reciproci per la durata di 90 giorni. Opzione rigettata dai britannici con una controproposta: facciamo 30 giorni – la regola attualmente in vigore nel Regno Unito per europei e statunitensi intenzionati a organizzare una tournée – e non se ne parli più. Al che, il negoziato sul punto è saltato.
«Esito spiacevole. La nostra porta rimane aperta – continua a dire il governo di Sua Maestà -, ma dev’essere l’Unione europea a cambiare idea. Per noi è essenziale mantenere l’impegno di proteggere i nostri confini». Tradotto: non c’è verso che la tanto osteggiata libertà di movimento – anche se in questo caso per una categoria ben definita -, uscita dalla porta, entri adesso dalla finestra a far parte dell’accordo con l’Ue.
Nei giorni scorsi – mentre al Parlamento europeo prendeva forma la campagna di denuncia #BrexitKillingCulture -, varie realtà britanniche rappresentative dello spettacolo – dal teatro all’opera, fino alla danza – si sono rivolte all’esecutivo invitandolo a rimetter mano alle regole e a prevedere misure di sostegno finanziario come fatto per il settore della pesca («il contributo economico delle arti performative al Paese è, del resto, dieci volte superiore»). E poi, ironizzavano da Bruxelles, «gli artisti sono come i pesci: non conoscono confini».
Il governo di Johnson ascolta ma non si piega e ha intanto risposto picche agli oltre 280mila firmatari di una petizione sulla creazione di un passaporto – da mettere a punto con Bruxelles – che permetta a musicisti , band, lavoratori della cultura ma anche dello sport, di viaggiare liberamente negli Stati Ue, senza dover sottostare alla richiesta di permessi, di volta in volta e secondo le regole di ciascun Paese membro. Discussa l’8 febbraio dall’apposita commissione parlamentare di Westminster, la petizione è stata però rigettata dall’esecutivo conservatore, che si è tuttavia impegnato a fornire agli artisti «tutte le istruzioni necessarie per orientarsi fra le nuove regole».
Le reazioni bipartisan di molti deputati britannici sono state nette. «La patria dei Beatles e dei Rolling Stones rischia di perdere il suo status senza eguali di hub culturale in Europa»; «una decisione incomprensibile che impedirà ai giovani talenti di emergere»; «un effetto boomerang per la florida industria britannica», che si vedrebbe messa ai margini al momento della ripresa degli eventi, dei concerti e dei festival nel Continente; «è un colpaccio per tutte quelle professionalità delle troupe – dai trasportatori ai tecnici – che rendono possibili le tournée». Molte aziende, ad esempio, per continuare a operare stanno considerando il trasferimento della sede legale nell’Unione europea: un taglio netto dei legami con Londra, «che ha reso le tournée internazionali di fatto impossibili». The Show Must Go On.