God Save the Fish Perché la pesca è un nodo cruciale nei negoziati sulla Brexit

Il 31 dicembre finirà il periodo di transizione e Londra non vuole permettere più alle imbarcazioni degli altri Paesi europei di andare a pescare nelle ricche acque britanniche. Ma è un asset fondamentale per i pescatori francesi. E il settore rappresenta solo lo 0,1% del Pil del Regno Unito

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Le trattative sul futuro delle relazioni tra Unione europea e Regno Unito non hanno mai navigato in acque tranquille, ma è sul dossier pesca che potrebbero finire contro uno scoglio.

Sono rimasti meno di 60 giorni per definire i rapporti post-2020 fra le due sponde della Manica e i team negoziali delle due parti continuano confronti febbrili facendo la spola fra Londra e Bruxelles (uno dei pochi tavoli che continua a riunirsi in presenza, a conferma del fatto che se una trattativa diplomatica deve andare in porto non c’è Zoom che tenga).

Principalmente due i nodi che non arrivano ancora al pettine in questa fase: l’allineamento regolatorio che garantisca un’equa concorrenza fra Ue e Regno Unito, da una parte, e l’avvenire dei diritti di pesca, dall’altra. Bruxelles è però ferma nel proposito di avere un accordo complessivo, rifiutando la possibilità di chiudere mini-intese settoriali. Nothing is agreed until everything is agreed.

Sul fronte della pesca, in sostanza, serve capire cosa ne sarà del ricco mare dell’Atlantico del Nord che fino ad oggi è stato condiviso dopo il 31 dicembre, quando il diritto dell’Unione europea cesserà di applicarsi al Regno Unito. L’obiettivo di un’intesa entro il 1° luglio è naufragato, colpito dai flutti delle incomprensioni degli scorsi mesi (e dai ritardi dovuti alla pandemia).

Il nodo è la possibilità per le imbarcazioni degli altri Paesi europei di andare a pescare nelle ricche acque britanniche – vi si contano oltre cento specie -, particolarmente interessanti per Stati costieri vicini come Danimarca, Irlanda, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Francia. Dall’inizio degli Anni Settanta – più o meno in corrispondenza dell’ingresso del Regno Unito nell’allora Comunità economica europea -, infatti, la gestione delle risorse ittiche è competenza esclusiva europea. Le acque oltre le 12 miglia dalla costa sono trattate come condivise: oltre a essere libero l’accesso, vengono anche fissati annualmente dai ministri degli Ventisette limiti di pescato per ciascuna specie, da ripartire poi in quote fra gli Stati membri.

L’Atlantico del Nord è il bacino più gettonato da parte dei pescherecci europei. Secondo dati del governo di Sua Maestà, il 35% del pescato delle imbarcazioni dei Paesi Ue proverrebbe dalle acque britanniche, mentre appena il 13% del pesce farebbe la rotta inversa, da acque di altri Stati Ue verso le banchine della Corona.

Insomma, sui diritti di pesca è Londra che dà le carte. E lo fa sfruttando uno dei problemi di prospettiva della Brexit: la percezione. La pesca rappresenta circa lo 0,1% del PIL del Regno Unito – meno del fatturato dei grandi magazzini Harrod’s, secondo un’evocativa stima -, eppure è stata uno dei mantra della campagna elettorale per l’uscita dall’Unione europea, nel 2016.

“Riprendiamoci la sovranità sulle nostre acque!” era uno dei gridi di battaglia più riconoscibili del Brexiteer-in-chief Nigel Farage che, alla testa di un’improvvisata flottiglia percorse pure il Tamigi, rivendicando il ritorno al passato glorioso per le comunità costiere e i pescatori di Sua Maestà, vittime di un declino portato dall’Europa matrigna.
La trionfale traversata del fiume della capitale, però, fu perturbata da una crociera organizzata dal guru dei Live Aid Bob Geldof, che inondò di note del pop anni Sessanta e di contro-informazione sui reali benefici della politica comune della pesca (PCP) per la gente di mare britannica (i cui battelli erano tra il secondo e il terzo posto per pescato nelle classifiche Ue).

I numeri, però, non lasciano scampo a equivoci. Con seimila imbarcazioni che danno lavoro a circa 12mila persone, la pesca non è il settore-chiave per il futuro da Stato costiero sovrano e indipendente che il Regno Unito vuol far credere. Semmai è un immediato grimaldello da adoperare finché possibile per forzare la mano sul negoziato globale, ben sapendo che è un dossier particolarmente spinoso per gli europei, per il quale Bruxelles sarebbe pronta a fare qualche concessione.  “Noi vogliamo mantenere l’accesso alle acque britanniche per i nostri pescatori come il Regno Unito vuole continuare ad avere accesso al mercato Ue”, ha inquadrato bene la questione il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

E allora ecco il compromesso fare il suo ingresso come un’orata in crosta di sale a un banchetto (o forse un fish & chips in una bettola d’Oltremanica): iniziale mantenimento dello status quo e successiva, graduale espansione della quota di pescato prevista per i britannici, a danno di quelle degli altri Stati Ue.

Ma se Londra punta i piedi, Parigi fa orecchie da mercante. Le acque britanniche rappresentano un asset fondamentale per i pescatori francesi, che in questo quadrante di Atlantico del Nord catturano un quarto del totale nazionale. Nelle ore in cui Bruxelles tesse la tela del compromesso, l’Eliseo è infatti l’oppositore più duro: il presidente francese Emmanuel Macron ripete che non saranno i pescatori di Bretagna e Normandia a pagare il conto della Brexit; un conto salato che, del resto, finirebbero per presentargli con gli interessi alle elezioni del 2022.

Se non dovesse intervenire un accordo nelle prossime settimane, Londra tornerebbe ad avere completo controllo sulla propria zona economica esclusiva di 200 miglia nautiche, con la possibilità di “cacciare” indietro i pescatori europei verso le rispettive coste.

Eppure, se in seguito a un no deal dovesse riappropriarsi delle proprie acque, il Regno Unito andrebbe di fronte a una doppio quanto pericolosa incognita. Da un lato non sarebbe probabilmente in grado di sfruttare tutte le nuove risorse ittiche a cui avrebbe accesso. Dall’altro, se anche lo fosse, si troverebbe davanti a un enorme ostacolo nella commercializzazione del pescato: i dazi imposti dall’Unione europea. L’80% del pescato britannico – incluso il florido settore dell’allevamento (in testa a tutti il salmone scozzese) – è infatti esportato verso i Paesi Ue. Merluzzi, sgombri e aringhe che finirebbero per attendere i controlli doganali (e magari nel frattempo marcire) sulle banchine dei porti.

Insomma, se all’apparenza Londra vuole ristabilire la sovranità sulle proprie acque, intimamente sa che la vera tutela per i propri pescatori e per il proprio settore ittico passa dal mantenimento di facili rapporti commerciali con i Ventisette.

Incurante della scarsa sensibilità del governo di Boris Johnson per gli obblighi internazionali, o con il solito colpo di coda surrealista bruxellese, il rappresentante permanente del Belgio ha tirato fuori dal cilindro il Privilegie der Visscherie del 1666, con cui l’allora sovrano d’Inghilterra Carlo II Stuart garantì a 50 pescatori di Bruges (nelle Fiandre allora sotto controllo spagnolo) accesso eterno alle acque britanniche, per ringraziarli dell’ospitalità durante l’esilio. So long, and thanks for all the fish.

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