Hollywood IdolDai film indie ai blockbuster, vita e miracoli di Chloé Zhao

Nata e cresciuta in Cina, ha trovato in America la sua strada. Prima producendo storie a basso budget e con attori non professionisti (ma bellissime) poi con il grande salto per la Marvel. Simbolo di un cinema che cambia

Foto di Taylor Jewell/Invision/AP, File

Oggi il simbolo del successo a Hollywood si chiama Chloé Zhang. La regista cinese da anni residente negli Stati Uniti, è passata, in una parabola velocissima, dalla produzione di tre film indipendenti al blockbuster rumoreggiante di supereroi Marvel, dedicato agli “Eternals”.

Un salto che racconta bene i tempi: si cercano voci nuove (anche per la diversity, ma non solo) e servono punti di vista originali. Riflette anche la fine del percorso di carriera consueto e la scomparsa di produzioni mediane: Zhang è passata da pellicole prodotte con budget risicati e attori non professionisti a dirigere Angelina Jolie. Il salto è ampio.

Ma la regista, al momento «la più ricercata di Hollywood», come recita il ritratto che le dedica il New York Magazine, mettendola anche in copertina, non si scompone. La sua voce artistica l’ha già trovata, apprezza le sfide e, anzi, è convinta di poter impostare a modo suo anche un prodotto commerciale di quelle dimensioni. Anche questa disinvoltura è segno dei tempi, oltre che della sua padronanza del mezzo.

Nata e cresciuta a Pechino, è una delle tante bambine ribelli con infanzia povera. Il padre però riesce a fare carriera nel mondo dell’acciaio, sale ad alti livelli manageriali e migliora lo status e la condizione della famiglia. Fino a quando non divorzierà dalla madre di Chloé e sposerà Song Dandan, celebre attrice di sit-com e – era inevitabile – idolo della figlia. Fu una sorpresa.

L’Occidente per lei arriva a 15 anni: prima a Londra, in una boarding school, che finirà in America, a Los Angeles. Il suo interesse per quel mondo nuovo e familiare insieme che, racconta al New York Magazine, «era molto diverso da come veniva rappresentato nei film» la porta a studiarne la storia e le forme istituzionali. Si iscrive al Mount Holyoke College, prende una laurea in Scienze politiche e poi capisce che le interessano di più le persone e non le policy.

A New York studia cinema alla Tisch School of the Arts («tra i miei insegnanti c’era Spike Lee, tra i più onesti e crudeli») e diventa regista. «È un mestiere in cui non devi essere il migliore in qualcosa, ma capace più o meno in tutte le cose». Voleva vivere raccontando storie «ma non ero brava a dipingere, a fare fotografie, a suonare», per cui «adesso prendo con me persone che sono bravissime in tutti questi campi e li faccio lavorare insieme». Il regista, insomma, deve essere insieme leader e imprenditore.

Il suo primo film, sperimentale e con un budget minimo, la porta in South Dakota, nella riserva degli indiani Lakota di Pine Ridge. Un mondo spesso visitato da documentaristi e giornalisti, tanto che, alle domande dei visitatori, gli abitanti hanno imparato a rispondere quello che, secondo loro, vogliono sentirsi dire. Storie di poverà, alcolismo, rifiuto sociale.

Chloé Zhao se ne accorge, si stupisce e decide di andare oltre questa cortina fumogena di conformismo. Conosce le persone, conquista la loro fiducia e scopre i veri interessi e le vere storie. Si focalizza su in particolare su quella di John Winters (interpretato da John Reddy), che pensa di seguire la fidanzata a Los Angeles. Lei farà il college, lui non ha piani precisi, anche se la riserva non gli offre un futuro. L’unico problema è lasciare la sorella, di 11 anni, nelle mani della madre alcolizzata. “Songs My Brothers Taught Me”, del 2015 è, insomma, un film sull’ansia di partire e i dubbi di restare. Ed è anche quello che la fa conoscere: viene presentato al Sundance e perfino a Cannes.

Il secondo esce due anni dopo. “The Rider – Storia di un cowboy” ha un budget ancora più ristretto e una troupe ancora più piccola: sempre ambientato nella riserva Lakota, racconta la storia di Brady Jandreau (nel film diventa Brady Blackburn), stella nascente del rodeo che, dopo un incidente a cavallo, vede la sua carriera finita per sempre. Il protagonista lo aveva incontrato durante le riprese del film precedente: «Aveva un’intensità e una prontezza davanti alla telecamera che mi ricordava Heath Ledger».

Dopo questi due docudrama (ma il termine è improprio: uno dei motivi per cui Zhang è innovativa è che non esiste una categoria particolare in cui inserire i suoi lavori) arriva “Nomadland”, uscito nel 2020 e acclamato ovunque. Il salto di livello è già avvenuto: la protagonista, Fern, è interpretata dalla famosa attrice americana Frances McDormand e il budget è molto più alto rispetto alle produzioni precedenti.

Il tema lo richiede: “Nomadland” racconta la storia di una donna del Nevada che, rimasta senza lavoro e vedova, decide di vendere tutto ciò che ha, comprare un furgone e andare verso Ovest in cerca di fortuna, lavori occasionali e mezzi per sopravvivere. Sono tanti che fanno come lei, nomadi economici vittime della Grande Recessione (quella dei subprime del 2007), che si spostano nelle aree interne del Paese, vivendo sulla strada.

I toni poetici e concreti insieme, l’amore per i paesaggi e gli spazi infiniti sono alcuni degli elementi dell’arte di Zhao, insieme alla capacità di mettere in mostra la politica. Uno dei personaggi del film racconta l’esistenza nomade come una scialuppa di salvataggio per un’esistenza che fa la fine del Titanic. «È il discorso più socialista che abbia mai sentito», ha detto Zhao. «E vengo pure dalla Cina».

Ora cambia tutto. La Marvel l’ha scelta per il suo “Eternals”, in un progetto che punta a portare al cinema anche figure del sottobosco dei fumetti, non conosciute al grande pubblico. Per questo – dicono – serviva un regista che sapesse inventare o reinventare i personaggi, ricollocarli sotto luci e dinamiche nuove. Non è l’usato sicuro dell’Uomo Ragno. Sarà un esperimento e per Chloé Zhao, un passo in avanti della sua carriera geniale.

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