Il bis non se lo aspetta nessuno. Il successo agli Oscar di “Parasite”, il film del regista sudcoreano Bong Joon-ho (ben sei statuette, per la rabbia dell’allora presidente Donald Trump) non è stato un caso, ma è difficile che si ripeterà presto. Per quest’anno segnato dalle incertezze del Covid (che in Asia è stato affrontato in generale meglio che altrove) si registra «l’assenza di capolavori», come spiega al Nikkei Asia il direttore dell’Hong Kong International Film Festival. «Anche se il panorama è comunque di alta qualità».
Il cinema asiatico spera, ma non tanto. Per il momento la giuria degli Academy ha selezionato due pellicole per la sua shortlist di 15. Il taiwanese “A Sun” (del 2019) diretto da Cung Mong-hong è la storia di un dramma familiare che parte dall’arresto del figlio più giovane, prosegue con una morte inaspettata e incontra una lunga serie di dimostrazioni di orgoglio.
Ai Golden Horse Awards del 2020 ha vinto ben sei riconoscimenti (lo stesso numero degli Oscar di “Parasite”) e The Hollywood Reporter lo ha definito «una meraviglia pazzesca». Chi volesse verificare con i propri occhi, lo troverà su Netflix.
Il secondo è “Better Days”, del regista di Hong Kong Derek Tsang, che affronta il tema del bullismo a scuola. In Cina è diventato subito una hit, ha già guadagnato 237 milioni di dollari e vinto otto riconoscimenti in festival vari. Il candidato cinese “Leap”, invece, che raccontava la storia della nazionale di pallavolo, ha ottenuto 130 milioni di dollari ma non ha convinto i giudici americani.
Nella shortlist ci sono sei produzioni europee, tre latino-americane (Cile, Messico e Guatemala), un iraniano, un russo e due africani.
Partendo da questi ultimi si trova la Costa d’Avorio con “La Nuit des Rois”, di Philippe Lacôte, che racconta la vicenda surreale di una prigione nel pieno della foresta autogestita dai prigionieri. L’ultimo arrivato – decide il boss – dovrà raccontare una storia agli altri. Il tunisino “L’homme qui a vendu sa peau”, di Kaouther Ben Hania, è il viaggio di un siriano che scappa in Libano con la speranza di arrivare a Parigi, dove ritroverebbe la persona che ama.
Il film russo è “Дорогие товарищи!”, (Cari compagni!), di Andrey Konchalovskiy, racconto di una ribellione operaia negli anni ’60 e la conseguente repressione autoritaria del regime sovietico, con crisi ideologica del narratore. Quello iraniano, invece, si intitola “Figli del Sole”, una specie di favola diretta da Majid Majidi in cui quattro amici che faticano per trovare di che vivere scoprono che uno di loro ha il dono di trovare tesori nascosti.
Meglio piazzati sono il cileno “The Mole Agent”, di Maite Alberdi, con tanto di investigatore che cerca di far luce sugli abusi negli ospizi, il ceco “Charlatan”, di Agnieszka Holland (un uomo con poteri straordinari calato nella realtà totalitaria degli anni ’50), il norvegese “Hope”, di Maria Sødahl, toccante storia d’amore, di arte e di malattia, il rumeno “Collective” di Alexander Nanau, sullo scandalo dell’incendio alla discoteca Colectiv (già visto alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2019) e il messicano “Ya no estoy aquì”, di Fernando Frias, tra danze di strada, signori del narcotraffico, sogno americano e nostalgia di casa.
Ma è più probabile che il vincitore sia uno tra “Deux”, produzione francese di Filippo Meneghetti e storia d’amore tra signore anziane minacciata dalla malattia e dalla vecchiaia, il guatemalteco “La llorona”, di Jayro Bustamante, che mette in mostra i fantasmi del passato di un signore della guerra ormai vicino alla morte, o “Quo Vadis, Aida?”, film bosniaco di Jasmila Zbanic, che ritorna attraverso gli occhi di una interprete dell’Onu al momento drammatico del massacro di Srebrenica.
Infine, il danese “Another Round”, di Thomas Vinterberg con Mads Mikkelsen, in cui quattro amici, tutti insegnanti, mettono alla prova la teoria per cui la vita migliora se si ha un livello costante di alcol nel sangue. È il film su cui puntano tutti.