Ci mancava pure il social audio, direte voi. Districarsi tra chat, storie, selfie e post è già una fatica quotidiana e poi abbiamo i vocali di whatsapp: a cosa ci serve Clubhouse? La domanda, in effetti, un suo perché lo ha. Ma è stato così all’inizio anche per Facebook, considerato un diario scolastico in timelapse o per Twitter, palestra degli intellettuali sintetici. Ma se Tik Tok o Signal – per parlare di due sbarchi recenti nell’universo digitale – rappresentano rispettivamente l’essenza del mostrarsi e del celarsi, in questo caso siamo di fronte a un fenomeno che sta rapidamente prendendo piede, anzi, voce, anche in Italia.
Le regole del gioco sono semplici: si entra (su invito), si bussa alle room per ascoltare gli eletti che discettano di argomenti random (gossip, politica, sport), si bussa per poter dire la propria e poi ci si allontana (leave quietly) in attesa di una nuova stanza o per dialogare one to one in private room o dar vita ad un vero e proprio “club”.
Unico strumento a disposizione, appunto, la voce. Senza possibilità di allegare gif, riempirsi di emoticon o chattare compulsivamente. È un ritorno alle origini, senza tirare in ballo Marconi o Radio Veronica, perché la socializzazione, nell’era dell’AI, ha anche i suoi rischi. In Germania si sostiene che Clubhouse non rispetti le regole della GDPR e certo non è il massimo sapere che gli audio vengono registrati e si può accedere – al momento – solo tramite iPhone.
L’app non consente inoltre agli utenti di conservare e archiviare le conversazioni, non dando modo di dimostrare che qualcuno abbia detto qualcosa di controverso nella room o se si siano verificati episodi di hate speech. Gli utenti statunitensi, in particolare le donne e le persone di colore, hanno sollevato preoccupazioni per la crescita di fenomeni di antisemitismo, misoginia, cyberbullismo, disinformazione sul Covid-19 e molestie, che si accompagnano con la progressiva e inesorabile ascesa verso il mainstream.
Ma far parte della community trendy abbassa le difese e le prudenze e così anche i leader politici, della tv e dell’opinionismo perenne sono già sbarcati con il loro profilo essenziale sotto l’immagine iconica di Bomani X, il cantautore americano scelto come memo visivo della app.
Che poi valga un miliardo di dollari o Facebook sia già pronta a mettere in campo un social audio alternativo, al momento poco interessa. Da neofiti del mezzo (altrimenti che presunti intellettuali saremmo) possiamo dire che fare gli oto-umarell non è male. Le rassegne stampa del mattino o i cazzeggi della sera accompagnano i trasferimenti in tangenziale o le pause tra una videocall e l’altra senza l’obbligo di mettere il cat filter per farsi notare. Purtroppo c’è chi il microfono lo prende come proprietà personale e chi ancora non ha capito che questa “compagnia del muretto digitale” vuole essere leggera e non necessariamente profonda.
Se gli anni 2000 hanno visto la crescita dei social network basati sul testo (Facebook, Twitter) e gli anni 2010 hanno riguardato le app visive e video (Instagram, Snapchat, TikTok), allora gli anni 2020 potrebbero essere l’era dei social network basati sulla voce. Insomma, vedremo se Clubhouse sopravvivrà al lockdown. Presto o tardi sapremo se una volta tornati ad assembrarci, le chiacchierate saranno senza app, ma di certo, in vista di Sanremo, cosa c’è di meglio di un gruppo di ascolto che discute ferocemente nell’apposita room?