Il tessuto commerciale delle città italiane è in continua trasformazione, non solo per effetto della pandemia che nell’ultimo anno ha costretto molte aziende alla chiusura. Era così già da prima: tra il 2012 e il 2020 le attività di commercio al dettaglio sono diminuite di oltre 77mila unità – una riduzione del 14% – e le imprese ambulanti sono 14mila in meno (-14,8%). Il risultato è un progressivo processo di desertificazione commerciale dei centri urbani.
I dati arrivano da un’analisi dell’ufficio studi di Confcommercio “Demografia d’impresa nelle città italiane”. Lo studio ha l’obiettivo di qualificare la demografia di impresa guardando come gli aggregati si muovono nei centri storici rispetto al resto del comune. In particolare, l’analisi si concentra 120 città medio-grandi, cioè tutti i capoluoghi di provincia (ed ex capoluoghi) più 10 comuni di media dimensione.
I centri si sono trasformati seguendo l’evoluzione dei consumi: si sono moltiplicate le attività legate a tecnologia e comunicazioni (+18,9%) e le farmacie (+19,7%). Ma quasi tutti gli altri settori sono in rapida discesa: si tratta dei negozi dei beni tradizionali che si spostano nei centri commerciali o, comunque, fuori dai centri storici che registrano riduzioni che vanno dal 17% per l’abbigliamento al 25,3% per libri e giocattoli, dal 27,1% per mobili e ferramenta fino al 33% per le pompe di benzina.
Il direttore del Centro Studi di Confcommercio Mariano Bella esclude motivazioni di carattere culturale o solamente tecnologico. In particolare, la perdita delle numerose attività commerciali nelle città medio-grandi è frutto di un’Italia che fatica a crescere economicamente: «È un fenomeno generalizzato che poi si accentua nei centri storici. Guardiamo a un dato fondamentale: tra il 2002 e il 2019 il Pil pro capite dell’Italia è calato del 4% circa, mentre quello dell’Eurozona è aumentato dell’13% nello stesso periodo. E i consumi sono -2%, con l’Eurozona a +11%. Semplicemente, l’Italia da vent’anni non cresce».
L’ultimo anno ha registrato un’ulteriore incremento nell’uso dell’e-commerce da parte dei consumatori, anche qui facendo da acceleratore a un fenomeno già in atto. Ma per Mariano Bella la pandemia non deve portare alla demonizzazione del commercio elettronico, semmai il contrario: «Dobbiamo ricordare che anche per le piccole imprese il commercio elettronico è un’ancora di salvezza, e lo è stato soprattutto durante la pandemia, che dunque dovrà convincere anche i più recalcitranti a servirsi di uno strumento che può pagare ottimi dividendi».
Stando ai dati di Confcommercio per la prima da circa vent’anni, nel 2021 si registrerà anche la perdita di un quarto delle imprese di alloggio e ristorazione (-24,9%), uno dei settori che ha accusato maggiormente la pandemia, per due fattori chiave: l’assenza di turismo e il lavoro da casa, che ha ridotto le occasioni di consumo in ufficio o in strada per molti lavoratori. «Alberghi e pubblici esercizi – si legge nel report – nel periodo 2012-2020 registrano rispettivamente +46,9% e +10%, ma il futuro è molto incerto».
Linkiesta ne ha parlato con Luciano Sbraga del Centro Studi Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi): «Nel periodo di riferimento c’è stata una crescita molto sostenuta delle cosiddette attività take away, della ristorazione informale, quella meno strutturata. Soprattutto nei centri storici, dove i costi di locazione sono molto alti, quindi si fanno attività senza spazi, senza molto personale e si faceva profitto anche grazie al turismo che prima affollava le città», dice Sbraga. La pandemia però ha ribaltato completamente la prospettiva evidenziando tutte le fragilità di questo schema: «Adesso – prosegue – senza turismo e senza lavoro in ufficio vengono meno le condizioni che hanno favorito lo sviluppo di queste attività, scoprendone le fragilità».
In questo momento, spiega Luciano Sbraga, l’economia è come se fosse sotto anestetico a causa della cassa integrazione, dei ristori, del blocco licenziamenti. «Non c’è la corsa a chiudere le imprese, ma potrebbe esserci tra qualche mese. E nel nostro settore, che vale 38 miliardi di euro, stimiamo che le imprese a rischio siano almeno 50mila o 60mila, cioè il 20%», dice Sbraga dal Centro Studi Fipe.
Entrando più nel dettaglio, il caso di Milano rappresenta il cambio radicale tra il periodo precedente alla pandemia e l’ultimo anno: nella ristorazione il 2020 ha registrato una perdita di 3,2 miliardi di euro dei ricavi (-45% del fatturato rispetto al 2019). E a gennaio 2021 c’è stata una perdita di 444 milioni di euro in un mese rispetto al gennaio 2020. Stesso discorso per il settore della ricettività (settore alberghiero, agenzie di viaggio, tour operator), che ha perso -1,45 miliardi di euro in un anno, circa il 65% di fatturato in meno.
«Sono settori che erano cresciuti moltissimo prima della pandemia, e vedevano un aumento delle attività commerciali, a dispetto del quadro nazionale. Ma senza una adeguata programmazione, senza ristori adeguati e senza aiuti agli enti locali con cui le imprese si trovano a dialogare diventa impossibile per le aziende attutire il colpo della crisi», dice a Linkiesta Marco Barbieri di Confcommercio Milano.
Questi dati, i numeri che raccontano l’evoluzione del commercio nei centri urbani invitano a ripensare gli spazi e a creare una nuova normalità per persone, beni, servizi delle città: una soluzione per contrastare il fenomeno di spopolamento – di cui si sta parlando sotto diversi punti di vista – che è un trend sempre più evidente.
Intanto negli ultimi dieci anni, a fronte della chiusura di decine di migliaia di imprese, in tutta Italia si sono moltiplicati i cosiddetti farmer market, i mercati contadini, che sono arrivati da zero a 1200. Secondo l’indagine Coldiretti/Ixe’ gli acquisti nei mercati del contadino sono risultati in crescita del 26% nel 2020.
«Non è solo la ricerca di un’agricoltura e di un cibo più sostenibile e locale», dice a Linkiesta il direttore della Fondazione Campagna Amica Carmelo Troccoli, «è anche la creazione di un’economia attorno a questo fenomeno, economia di piccole e medie imprese. E la rivalutazione di zone e piazze in una nuova concezione di arredo urbano. E di edifici di rilevanza architettonica, noi ad esempio abbiamo riaperto anche in chiese sconsacrate, o in periferie in cui non c’era più nulla».
Ma trasformazione degli spazi sarà legata anche a una città più accogliente, accessibile, sostenibile – non solo dal punto di vista ambientale, anche per i trasporti, le abitazioni, il commercio e le imprese. E il nuovo standard, secondo le fonti sentite da Linkiesta, si vedrà soprattutto quando tornerà il turismo.
Il govero Draghi è già al lavoro su questo fronte: il premier ha ribadito la centralità delle piccole e medie imprese, soprattutto quelle del turismo, evidentemente intese come motore della ripresa economica. E dal Centro Studi di Confcommercio fanno sapere di avere apprezzato particolarmente il fatto che il turismo abbia avuto un ministero con portafoglio. La trasformazione dei centri urbani era già in atto. Adesso occorre immaginare, cercare e applicare nuovi standard, secondo un modello di business che non sia la copia carbone di quello che ha portato alla chiusura migliaia di aziende negli ultimi dieci anni ed è stato ulteriormente danneggiato dalla pandemia.