Se a Mario Draghi sarà consentito di lavorare, l’impresa che lo attenderà dovrà giocoforza andare oltre la mera gestione dell’emergenza, che sia quella pandemica o economica. Il suo compito, tramite l’utilizzo dei fondi di Next Generation EU e l’attuazione delle riforme strutturali cui questi sono legati (anche se ci piace dimenticarcelo), sarà anche quello di contribuire a guarire il popolo italiano psicologicamente da quel complesso e da quella sindrome da declino che lo affligge ormai da una trentina d’anni.
È una malattia che produce vari sintomi. Per molti, forse la maggioranza, questi consistono in una sfiducia totale non solo verso la politica, ma anche per la classe dirigente di ogni tipo, economica, sociale e religiosa, e, come abbiamo potuto vedere con la pandemia, anche medica. In altri genera una saudade verso un passato perduto di benessere che si pensa non poter più tornare e non produce molto più che nostalgia e rifugio in un’epoca mitizzata quanto sopravvalutata.
Anche molte reazioni e tentativi di contrasto del declino non sono altro in realtà che sintomi della malattia stessa. Come le fantasiose teorie sulla monetizzazione del debito, sul fare come in Inghilterra, uscendo dall’euro e dalla Ue, oppure su nazionalizzazioni e leggi punitive contro le multinazionali.
E ovviamente come per ogni patologia c’è la rimozione e la negazione, il rifiuto, la pretesa che l’economia italiana sia in realtà sana e che alcuni indicatori, come quelli riguardanti Pil, debito e deficit, in realtà non abbiano valore e che, come da copione antico, siano solo le manovre straniere a volerci indebolire. Spesso questi sintomi e queste reazioni, anche se contraddittorie, coesistono.
Ma il problema alla base della sindrome c’è, si è aggravato negli anni e si esplica in un’evidenza che tutti, anche i negazionisti, riconoscono e comprendono facilmente, perché la verificano nella propria vita: il tenore di vita degli italiani non è migliorato negli anni, è rimasto indietro rispetto a quello dei popoli nostri vicini, e stiamo scivolando indietro nella classifica della serie A del mondo.
Non sono tanto il Pil o i tassi di occupazione a farcelo capire, ma indicatori ancora più concreti che riguardano tutti, anche chi un’occupazione fortunatamente ce l’ha: quelli che riguardano i consumi e i salari degli italiani.
Se negli anni ’90 i consumi pro capite degli italiani, misurati in euro PPP (con il criterio della parità di potere d’acquisto), erano circa due mila euro l’anno superiori a quelli della media Ue, il vantaggio si è poi ridotto al di sotto di quella soglia fino ad azzerarsi in modo repentino tra il 2011 e il 2014. La ripresa successiva ha sì permesso ai consumi di ripartire, ma a livelli ormai in linea con quelli del resto della Ue, o addirittura inferiori. Come nel 2019, l’ultimo anno “normale” prima del Covid, quando erano di 20.500 euro nel nostro Paese e di 20.600 nella UE.
Se ne accorge chiunque viaggi in una capitale europea, e in particolare chi va a Est o nella penisola iberica. Del miglioramento del tenore di vita che ha interessato negli ultimi 20 anni gran parte del Vecchio Continente, in Italia se ne è avuta solo una pallida eco. Soprattutto considerando che tra i pochi ad essersi salvati sono stati i percettori di una pensione, non certo coloro che sono più attivi, giovani e salariati.
Questo perché l’andamento dei consumi non è stato certo dovuto a un aumento dei risparmi, che piuttosto hanno continuato a ridursi, ma a un trend dei salari molto deludente. Quello netto medio degli italiani è passato dai 15.261 del 2000 ai 10.888 del 2019, con una brusca frenata dopo il 2010.
L’aumento del 36,9% in 19 anni è stato sicuramente inferiore a quello europeo, del 53,3%, come a quello tedesco, addirittura del 68,7%. Basti pensare che se i salari tedeschi erano all’inizio del millennio solo di 2.300 euro più alti, nel 2019 il gap era di quasi 8.600.
L’Italia ha rappresentato il peggior fallimento di quello che doveva essere uno degli obiettivi dell’Unione Europea, la famosa convergenza: ovvero l’adeguamento dei redditi e quindi dei tenori di vita tra i Paesi, attraverso una crescita sostenuta in quei Paesi e quelle aree che erano sotto la media. È quello che è avvenuto nei Paesi dell’Est e in Spagna e in Portogallo, non in Grecia e Italia, soprattutto non nel Mezzogiorno. La Spagna stessa, appunto, che aveva livelli di consumo analoghi ai nostri nel 2000, li ha visti aumentare nonostante la crisi che anch’essa ha sofferto, molto più di noi.
E quello italiano non è un declino che riguarda solo i consumi più voluttuari, quelli più dipendenti, elastici direbbero gli economisti, dall’andamento del reddito e dei salari, ma anche i consumi di base. Fatto 100 il consumo di cibo in Europa nel 1995, quello in Italia era di ben 138 nel 1995, per poi declinare e scendere anzi sotto la media dopo il 2015, fino a un livello di solo il 90% di quello europeo nel 2019. Idem per quanto riguarda la spesa per la salute, già inferiore alla media, ma diminuita ulteriormente fino al 76% di quella dell’europeo medio. Come in mille altri indicatori solo la Grecia ha fatto peggio di noi.
È un dato particolarmente rilevante perché per l’economia italiana, così povera di investimenti, i consumi sono una parte del Pil più importante che per altre economie. Ecco perché questa sindrome del declino. La sensazione di non poter più tenere il passo dei primi, della Germania, della Francia, o anche degli Stati Uniti. Di non poter più neanche paragonare i nostri stipendi ai loro come abbiamo sempre fatto.
La prima mossa per cominciare a guarirla è riconoscerla, capendone le cause, senza indulgere in inutili orgogli, senza rifugiarsi nel nazionalismo, comfort zone dei popoli sconfitti e in decadenza, fedele compagno da sempre del complottismo xenofobo che guarda caso vive un revival in Italia.
Nel nostro Paese siamo passati da una fase in cui la destra e la sinistra si accusavano a vicenda di essere la causa dell’alto debito a una in cui in entrambe ampie fazioni pensano che il debito non sia il problema. Anche questo è un effetto del declino e dell’inconscia rassegnazione a esso. Ritornare a pensare che invece per esempio il debito un problema lo rappresenta, un problema con cause e metodi di risoluzioni interni, e intimamente legato ai consumi e agli stipendi che non crescono, è già un primo passo.
Draghi dovrà riuscire a far prendere coscienza ai politici e quindi anche agli italiani innanzitutto di questo. Dovrà guarirli da quella forma depressiva che il declino ha provocato cominciando a dire la verità. È la prima mossa, necessaria, anche se non sufficiente, per poter pensare di ritornare nel gruppo di testa del primo mondo.