D-DayLa grande confusione intorno a Draghi, soprattutto del Pd, e le trame di Conte

Il presidente del Consiglio incaricato si muove con circospezione tra i dubbi e i dilemmi dei partiti. Se i Cinquestelle temono, scegliendo l’opposizione, di tornare all’irrilevanza, i dem si ritrovano divisi tra due linee inconciliabili

In questa sorta di Berlino 1945 che è diventata la politica italiana, Mario Draghi si muove fra le macerie dei partiti, fra furbizie risentimenti e demagogie, ed è per questo che la crisi si presenta non breve, proprio per dar modo ai partiti di chiarirsi le idee.

Draghi comincia le consultazioni nel pomeriggio, c’è ancora una manciata di ore per fare un po’ di luce. Tra l’altro bisogna ancora capire se intende varare un esecutivo con dentro i rappresentanti dei partiti (modello Ciampi) o no (modello Monti).

Le tessere del puzzle non stanno andando a posto. Basti dire che c’è un Giuseppe Conte che medita un gran ritorno se l’ex capo della Bce dovesse fallire, e non è dato sapere se e quanto stia brigando con i grillini per indurli a non sostenere l’operazione di Mattarella.

Ieri Draghi ci ha parlato a lungo – un colloquio inusuale fra il premier e il premier incaricato di sostituirlo – per capire cosa ha in mente l’avvocato. Il cui ruolo, in un senso o nell’altro, è effettivamente importantissimo per definire le scelte dei grillini.

Infatti il M5s, in pieno stato confusionale, è il simbolo di una situazione dominata dai fantasmi: quello di baciare non solo «il rospo» – come si diceva ai tempi di Rifondazione comunista quando doveva sostenere Lamberto Dini – ma addirittura il «diavolo» amico dei banchieri eccetera eccetera, quel Draghi che non a caso Beppe Grillo ha chiesto ai suoi di impallinare; ma c’è anche un altro fantasma, quello di restare fuori dai giochi, di segare il ramo della legislatura che consente stipendi e quant’altro, è il fantasma del ritorno a uno stato di natura bambinesco se non addirittura ferino, hobbesiano, da tutti contro tutti, l’epoca di quando Luigi Di Maio era uno sconosciuto e non un leader: e infatti è lui il più aperturista, il polo opposto a quello dell’ex amici Dibba. Ma la sensazione ieri sera era che l’aria stesse cambiando a favore di Draghi.

Eppure è proprio a questi grillini allo sbando che il Pd in qualche modo si aggrappa, tormentato tra il dovere nazionale di dare un governo al Paese secondo l’indicazione del Presidente della Repubblica e la voglia di rivincita contro l’odiato Matteo Renzi, che lo stato maggiore vortebbe disintegrare attraverso elezioni che però si sono allontanate.

Nicola Zingaretti, sbollita la rabbia iniziale, ha infine scelto dando credito al tentativo di Draghi. Ma il rovello è di non poco conto: se la sentirebbe il Pd a dire sì al governo Draghi senza un contestuale sì del M5s?

Perché per Goffredo Bettini, Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice l’alleanza con il M5s non può andare in frantumi perché è il cuore della strategia dem; mentre per Dario Franceschini e Base riformista «bisogna convincere il M5s a dare una base parlamentare al governo Draghi», come spiega il ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

È un’altra cosa. Bettini non può digerire il repentino abbandonare Giuseppe Conte al suo destino scelto dal Nazareno. Mentre Base riformista lavora per SuperMario, omaggio alla realpolitik, i conti sulla linea bettiniana si faranno dopo.

Quanto ai riformisti doc, un esecutivo Draghi è una grande occasione per fare tutto quello che Conte non ha saputo fare, le riforme in primo luogo: «La differenza tra Monti e Draghi è che il primo arrivò per frenare lo spread e tagliare la spesa, mentre Draghi avrebbe 209 miliardi da investire per modernizzare il Paese – dice Giorgio Gori – se il governo decolla è una grande occasione. E il Pd deve giocarsela da protagonista».

Insomma, se non siamo ancora ad una divisione fra filogrillini e draghiani, pure si intravede una faglia divisiva fra la sinistra che attornia Zingaretti e la variegata area riformista, una faglia il cui grande solco è appunto il rapporto con il M5s.

Sono discussioni che si faranno quando prima o poi si entrerà in una fase congressuale in cui si confronteranno due linee diverse, quella bettiniana, basata sulla convinzione che per recuperare voti e senso il Pd abbia bisogno di un partito radicalmente spostato a sinistra, alla Bernie Sanders, capace di inglobare un pezzo del M5s e la sinistra radicale, un Pd come «una grande LeU»; dall’altra i riformisti di vario tipo che si cominciano a organizzare e che nel contesto di una fase draghiana potrebbe meglio mettere a punto linea e squadra.

Ma intanto c’è un passaggio delicatissimo da superare. Il corso delle cose ha spaccato partiti e coalizioni (la destra ha tre linee diverse) e nulla è scontato. Se il M5s mancherà all’appello e Salvini starà alla finestra i numeri non ci saranno neanche per l’italiano più stimato del mondo. Il suicidio finale della politica.

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