Goffredo Bettini è ed è stato – e lo ha sempre rivendicato – in piena sintonia con la struttura di pensiero e le scelte teoriche e politiche Pietro Ingrao «una persona decisiva nella mia vita». Solo se si ha presente questa radice del Bettini-pensiero, e quindi delle sue strategie e delle sue tattiche si può capire come il Pd di Nicola Zingaretti, etero guidato appunto da Bettini, sia riuscito ora nel capolavoro di essere costretto ad appoggiare in pieno un governo Draghi che sarà però obbligato a dare il maggior peso programmatico alle istanze di Silvio Berlusconi, di Matteo Renzi e del centrodestra e a marginalizzare quelle del Pd, per la semplice ragione che sarà quello l’effettivo blocco di garanzia della sua maggioranza parlamentare.
Si concluda come si concluda lo psicodramma dei Cinquestelle, è evidente che gli eventuali voti che daranno a Draghi – se li daranno – saranno instabili, affetti da malpancismo, incerti, confusi. Da presidente del Consiglio Draghi dovrà prendere provvedimenti sull’economia, sulla giustizia, sugli investimenti strutturali, sulle riforme dell’amministrazione a partire da un dato di fatto: il Partito democratico sarà costretto a dare il suo assenso sempre e comunque, prigioniero del suo senso di responsabilità che azzera le sue capacità negoziali. Non potrà mai minacciare di rompere la maggioranza.
Berlusconi, Renzi e Salvini (e forse la Meloni, magari defilata) potranno invece minacciare la crisi e quindi incidere sulle scelte di governo in senso liberale e per di più hanno un vantaggio: la loro piattaforma concettuale liberista è molto vicina a quella di un Mario Draghi, alieno alle pruderie stataliste che animano il Pd e che egemonizzano i Cinquestelle.
Ma torniamo a Bettini e a Ingrao («uomo dalle occasioni mancate» secondo Aldo Giannuli; «perdente di successo» per Mario Lavia), perché coerentemente ingraiana è l’analisi e quindi la strategia di Bettini – e quindi di Zingaretti – nei confronti dei Cinquestelle. Strategia che ha portato i due a sbattere rovinosamente nella difesa a oltranza del Conte ter.
Per afferrare il tema bisogna ricordare una direzione del PCI di fine anni settanta spesso citata dall’ottimo Paolo Franchi, nella quale Ingrao se ne uscì con questa frase: «L’ayatollah Khomeini… che dico, il compagno Khomeini!». Attonito stupore in sala.
È questa una caratteristica intrinseca dell’ingraismo, inchinarsi ai movimenti di massa, anche alla loro portata eversiva, senza saper cogliere il loro segno reale, in una sorta di delirio dannunziano di sinistra, nel quale la frase, il suono evocativo e roboante delle parole sono mezzo e fine di una politica che solo troppo tardi scopre di non avere le gambe. È così ha fatto Bettini non capendo assolutamente che i Cinquestelle nonostante il loro travolgente successo elettorale, «sono il nulla» (copyright Carlo de Benedetti), non hanno la minima omogeneità con la sinistra, non sono affatto espressione di un «populismo sociale» come sostiene Bettini, col quale quindi il Pd si può alleare e fare addirittura cartello elettorale.
I Cinquestelle invece hanno una caratteristica fondante e opposta, non hanno una idea sana che sia una e quindi sono dei voltagabbana assoluti – tranne che sulla giustizia forcaiola, dato drammatico – e possono passare dai gilet gialli all’esaltazione di Macron senza fare una piega. Dalla denuncia penale contro Mattarella all’obbedienza totale al presidente nell’arco di un mattino. Sono dei camaleonti totali, prodotti dalla più perfida anti-politica con un di più: non sanno fare nulla, non hanno professionalità alcuna, e non conoscono neanche i congiuntivi. In più sono ferocemente attaccati alla poltrona e ai privilegi da parvenu totali quali sono.
Dunque, Bettini e Zingaretti (e D’Alema, defilato) hanno portato oggi il Pd all’irrilevanza assoluta, a essere la ruota di scorta di un governo non voluto perché ingraianamente hanno confuso tattica, movimento e strategia. Perfettamente lecita la scelta tattica di fare un governo con i Cinquestelle inventato peraltro non da loro, ma da Renzi, per bloccare la deriva del Papetee di Salvini. Ma diabolica e astrattamente dannunziana la scelta di cristallizzare questa scelta tattica in una strategia di alleanza strutturale, addirittura elettorale con i Cinquestelle, per ricomporre un blocco di sinistra egemone. Da sempre, la tradizione comunista sbaglia analisi e confonde i movimenti dell’elettorato con le caratteristiche dei partiti che ne ricevono i favori. D’Alema, nel nome di questo storico abbaglio definì la Lega «costola della sinistra».
Lo stesso lider máximo si è speso negli ultimi mesi – a fianco di Zingaretti e Bettini – nel consigliare e supportare personalmente Giuseppe Conte nell’illusione di lavorare a un rassemblement in cui fondere due componenti con ampi marigini di omogeneità: Pd e M5S, appunto.
Ma sono tutte fole, sono dinamiche cervellotiche, astratte, senza riscontro con la realtà fattuale, che per di più si scontrano con la dura caratteristica dei 5Stelle che, non sapendo neanche come si scrive strategia, non hanno tattica. Praticano solo giravolte. Ha avuto facile gioco Renzi a far saltare il tavolo della trattativa quando tutto il Movimento ha preteso che tutti i suoi ministri, a Bonafede e Azzolina in testa, restassero al loro posto. Nessuna malleabilità perché quel che io dico «è verità» come dice sempre Bonafede.
Ora, vittima dei propri abbagli tattici e strategici, ridicolizzata dalla sua difesa aa oltranza di un personaggio minore e camaleontico come Giuseppe Conte, come unico punto di equilibrio di un governo governante, la coppia Bettini-Zingaretti (e D’Alema) deve inchinarsi a Draghi e ai suoi ordini. E deve rendere conto al corpo di un Pd che non può che prendere atto che il suo vertice l’ha ridotto a una posizione irrilevante e perdente.
Al Nazareno si apre una fase dei lunghi coltelli. Ancora una volta.