La biografia della nazione Toninelli avverte Draghi, Rocco supera Obama, e altri mitomani italiani

Subito un governo ombra con gli arcitaliani che lanciano ultimatum non potendoselo permettere e si vantano con i giornalisti senza sprezzo del ridicolo (con i complimenti ai giornalisti coraggiosi, coraggiosi adesso che Casalino non conta più)

Lapresse

Che fine hanno fatto i governi ombra? Lo chiedo perché vorrei sentirmi di nuovo sedicenne, un bel governo ombra e i leader politici che baciano le mogli sulle copertine dei giornali – no, ci ho ripensato, non abbiamo segretari di partito baciogenici, in questo secolo, poi c’è pure la pandemia, lasciamo stare gli scambi di saliva sebbene tra congiunti. Mi farò bastare il governo ombra.

Ma, diranno i miei piccoli lettori, se sono tutti al governo vero, quello ombra chi lo fa? La Meloni da sola? Macché. Guardate che spuntano da ovunque indizi ombra, indizi di gente che sotto questo sole è bello pedalare ma.

Toninelli, per dire. Ieri i social si prodigavano in elogi o risate, a seconda della curva di tifoseria, sul suo intervento di mercoledì. Quello in cui ha detto a Draghi che la sua fiducia deve conquistarsela giorno per giorno, che sembra un po’ quando stai con uno molto più figo di te e dai gli ultimatum, invece di accendere un cero alla madonna (so di cosa parlo, ho acceso molti ceri a molte madonne, nelle pause tra un ultimatum e l’altro).

Lui lanciava ultimatum che non si poteva permettere, «Da che parte vuole stare, dalla parte di chi salva le banche? Dalla parte dei potentissimi, o» – e io ero costretta ad abbassare il volume della diretta, impegnata come mi ritrovavo ad avere vent’anni e a squarciagolare come allora De Gregori, Chi ruba nei supermercati?: «Così vediamo dove siamo, e dove stiamo andando, così impariamo ad imparare, e a sbagliare sbagliando», che allora non sapevo essere il manifesto elettorale dei Cinque del quinto piano.

Toninelli vibrava d’autostima per le sue trascorse mansioni (non chiedetemi quali), e d’indignazione perché Draghi non gli pare abbastanza dalla parte dei poveri, e io cercavo di non distrarmi con De Gregori («Tu cosa credi, bello? Di sapere veramente il prezzo e il nome, e il nome e il prezzo, che ti stanno dando?»), e intanto pensavo: ma perché ci siamo appiattiti su quel format olandese che è il Grande Fratello, quando avevamo il format più potente del mondo, l’unica vera vocazione italiana? Altro che gli spaghetti e la pummarola: la mitomania.

A proposito (di Grande Fratello? di mitomania? Lasciamola così, ambigua): ieri è arrivato il messaggio di Casalino. Non a me, che sono ombra per vocazione. Ma a Stefano Cappellini, giornalista di Repubblica e ragazzo fortunato che Rocco ha incluso, ai tempi di Chigi (come diceva lui), nella chat con cui informava i giornalisti. Sì, lo so che avevo qui stigmatizzato i giornalisti che da quella chat non facevano filtrare nulla fintantoché Casalino contava qualcosa. Ma l’impresentabile verità è che il sollucchero, ora che Rocco l’élite lo può copincollare sui social come brioche in omaggio a noi che non siamo mai stati all’altezza di riceverlo direttamente, supera di grandissima lunga l’impeto moralizzatore (almeno il mio).

Pare Casalino abbia scritto, a proposito del suo memoir, «superato Obama nella classifica di Amazon». Casalino, uno di noi. Nel paese in cui tutti hanno pubblicato un libro (forse il mio portiere ancora no, ma solo perché lo si nota di più), e in cui tutti (me compresa, naturalmente) pubblicano sui loro social lo screenshot del brevissimo momento in cui sono primi nella sottoclassifica tematica «infanzia e olocausto», o in quella «cucina molecolare e musica soul», in questo paese di mitomani, il tenero Casalino fa la stessa cosa ma nella chat dei giornalisti (crede che gli volessero bene davvero, povero, e che ancora tifino per lui; poi tra qualche anno scriverà un secondo memoir raccontando che i giornalisti lo irridevano più dei compagni di scuola tedeschi, capirà che sono la peggiore delle categorie, farà amicizia con D’Alema).

Il dettaglio interessante è che, nella mattinata in cui nella classifica di Amazon – quella generale, non la sottoclassifica «autori pugliesi emigrati in Germania» – Casalino è quarto tra i libri più venduti, e Obama è quinto (il libro di Obama è in vendita da novembre, quello di Casalino da martedì, ma ora non cavilliamo), al terzo posto ci sono le memorie di Carlo Verdone: La carezza della memoria, uscito lo stesso giorno di Casalino, così fresco da essere ancora indicato nella url di Amazon come “titolo da definire”.

Chissà se, sul profilo Facebook riservato che di certo terrà per comunicare coi suoi amici, Verdone ha messo uno screenshot esultante come noi mitomani medi: superato Casalino in classifica, alé.

Ma, soprattutto, chissà se l’uomo che ci ha inventati, che nel 1982 codificò la mitomania come carattere nazionale con Manuel Fantoni, protagonista di Borotalco, ha qualcosa da dire su questo fenomeno. Probabilmente direbbe che lui non ha inventato niente, che vent’anni prima c’era stato Il sorpasso, che il padre di tutti i mitomani è Bruno Cortona, che il merito del format nazionale va a Scola e Risi.

Lo direbbe perché il basso profilo è una cosa che, per contrasto, viene naturale agli studiosi di mitomania. Ma sa anche lui che non è vero, perché l’irresistibile mitomane deve avere una fisionomia media: dev’essere Carlo Verdone, mica Vittorio Gassman; dev’essere Toninelli, mica George Clooney; dev’essere Rocco Casalino, mica Pietro Taricone. Se le sue enormità non sono completamente inverosimili, non fa ridere (e infatti Il sorpasso doveva farlo Sordi, e sarebbe stato un altro film ma soprattutto un’altra Italia: non avremmo scambiato la satira per modello comportamentale).

«Sarà sereno, e se non sarà sereno si rasserenerà: in quale notte ci perderemo? Quale futuro ci raccoglierà?»: chissà se De Gregori gli concede l’inno, al governo ombra dei mitomani; chissà se Verdone ha voglia di fargli almeno da consulente, al governo ombra di Toninelli e Casalino.