Ancora ieri in collegamento telematico con Davos, Xi Jinping si è presentato con il volto rassicurante di una politica estera che porge la mano a Joe Biden, chiude polemicamente l’era Trump, plaude al multilateralismo e chiede collaborazione globale. Né guerre fredde né tantomeno calde.
È un dato positivo per il mondo, ma restano i problemi: l’insidiosa espansione cinese ovunque siano fragili le barriere politiche ed economiche, come in Africa, o incroci incompetenza e leggerezza nel ventre molle dell’Europa stessa, come accadde con l’Italia di Di Maio: arance congelate contro nuova via della seta.
La Cina è il convitato ineludibile del futuro del mondo, ma va maneggiata con cura, perché è ancora una dittatura, non solo ad Hong Kong.
Il miracolo economico, straordinario nella crescita degli ultimi decenni e, salvo smentite, nella ripresa post Covid, si è avvalso di categorie che sembrano appartenere ai canoni dell’economia di mercato, ma la rivoluzione non supera la soglia della politica, dei diritti umani, dello stato di diritto, della cittadinanza. Classi dirigenti pur spregiudicate non hanno mai varcato quel confine. Lo Stato rimane un’autocrazia che da oligarchica si avvia alla monocrazia di Xi, presidente pressoché a vita, la dottrina restando un improbabile compromesso tra Confucio e Carlo Marx, la libertà un’assenza non accettabile.
C’è in Occidente una tendenza ad accontentarsi che sembra ragionevole ma è molto pericolosa.
La libertà politica non è il bicchiere mezzo vuoto della libertà economica.
Ne ha scritto qui su Linkiesta un autore che ben conosce la Cina, Rainer Zitelmann, con atteggiamento positivo, con una apertura di credito alle buone intenzioni, facendo intravedere un futuro cinese che prima o poi confluisca nel grande alveo della liberaldemocrazia, ma che forse anche così come è, non è poi tanto male. Ma la Cina non è il Cile dei generali, che aveva già conosciuto la democrazia, i partiti, il pluralismo: lo sottolineiamo perché Zitelmann usa come testimonial di questo percorso apparentemente virtuoso Milton Friedman, visitatore della Cina fin dai primi anni ’80 e via via sempre più compiaciuto misuratore del passaggio dall’economia rigida di Stato a quella flessibile di mercato. Con un dato oggi ancor più impressionante, e cioè che la forza trainante dell’economia cinese è quella che noi definiremmo iniziativa privata. Il contributo dei privati all’economia nazionale è del 60% in termini di Prodotto interno lordo, del 70% in termini di innovazione, del’80% in termini di occupazione.
Per la ricadute che questo dinamismo fa fruire all’intero sistema economico globale, si tratta di dati importanti, con conseguenze formidabili in un mondo interconnesso e interdipendente.
Ma nell’ottica liberale questo non basta a giustificare la certificazione di una specie di terza via. Vero è che il mondo oggi profondamente in crisi è alla ricerca talora spasmodica, talaltra fantasiosa di un’alternativa diversa dal socialismo e dal capitalismo, ma è solo una illusione ottica. Di illusioni per carità, può nutrirsi anche il mercato, e può trovare spazio lo spaesamento di una democrazia messa a dura prova dal populismo, che è giunto ad assaltare Capitol Hill.
Nel 2018, alle elezioni italiane, metà del Parlamento era frutto dell’irresistibile attrazione del populismo e del nazionalismo. Segno di crisi irreversibile della democrazia liberale, di stanchezza dei valori della rappresentanza, delle regole scambiate per riti? Che la democrazia liberale sia sotto assalto, e scricchioli ovunque emerga l’emozione dell’invettiva, la semplificazione dell’uno vale uno, la supremazia della post verità è un dato di fatto, ma inquietante. Sullo sfondo c’è sempre l’ombra dell’uomo forte, persino il successo breve del maggioritario in Italia era dovuto anche alla voglia di uomini solo al comando, quelli che la sera delle elezioni non perdono tempo e formano subito un governo decisionista.
Ma per quanto grandi possano essere i limiti e i difetti del sistema democratico non giustificano l’abbandono del compagno di viaggio indispensabile alla democrazia, cioè la libertà politica. L’esempio cinese non è la prospettiva più allettante del nuovo millennio e il suo successo può ingannare gravemente.
Non basta il mercato, non basta la prevalenza del privato, se tutto il resto è in mano allo stato.
Le libertà sono plurali, non singolari. Tutto si tiene.
Zietelmann per questo cita le speranze di Friedman dopo la visita in Cina nel 1993, sbalordito da Shenzhen, villaggio di 6000 anime nel 1982 e megalopoli di 12,5 milioni di abitanti oggi.
Un liberale, davanti a questa crescita, reagisce come alla vista di un mostro. Come è stato possibile ottenere tutti questo? Evidentemente spazzando via le regole e le bardature dell’economia ma anche quelle della libertà, che è sempre un impiccio con le sue garanzie e i suoi contrappesi.
Insomma, se Croce ed Einaudi discettavano delle sfumature tra liberalismo e liberismo, oggi ben altro è in gioco. Ma resta il problema di fondo, e cioè che dalla libertà economica passare alla libertà politica è diverso dal suo contrario. Liberare la strada alla libertà economica usando gli strumenti della dittatura non è liberalismo, non è socialismo, Ma non è neanche terza via. Dittatura rimane.