Giorgia Meloni è una specie di paradiso fiscale della stronzaggine. Sì, è donna, ma se sei fascista mica vale, ti scalano i punti fragola della specie protetta. Sì, fa dei discorsi efficaci, ma con quel piglio così volgare, si sa che in politica pagano l’eleganza e il basso profilo.
Tutto quello che rivolto a un’altra sarebbe ragione di scandalo e grida alla fine della democrazia – dal fare vignette che abbiano come senso ultimo il dire che è grassa, allo sbeffeggiarla perché si ritocca le foto (noialtre di sinistra, invece, tutte no filter) – tutto con lei è concesso.
Quindi la vera domanda sul video dei due professori e un immoderatore che la insultano abbastanza da farle ricevere una telefonata solidale del Quirinale è: come ci siete riusciti? Come si fa a superare la soglia di tolleranza d’un Paese che ha deciso che la Meloni sia uno dei pochi bersagli consentiti?
C’è un precedente recente. Qualche giorno fa, un giornalista della Stampa si è molto scusato, e il suo direttore anche, per aver scritto che la Meloni aveva «prodotto» una figlia. Io avevo pensato il giornalista si riferisse al mestiere del padre, citato subito dopo. È un autore televisivo, quindi la figlia è una produzione. Non è che la battuta sia bellissima, ma se fossero reato le battute non riuscite mi vengono in mente molti comici professionisti che sarebbero al 41 bis.
Si sono tutti profusi in scuse, il giornalista è ovviamente stato insultato sui social (ormai sui social non t’insultano solo se sei invisibile e immobile e inabile ad articolare una frase di senso compiuto), ma io ancora non ho capito in cosa la scelta del verbo «produrre» fosse offensiva.
Forse era il primo segnale. Forse è stato il giorno in cui Giorgia Meloni ha smesso d’essere quella con cui vale tutto.
Certo, è ancora una nemica, per chi crede in qualcosa dalla parte opposta. L’altro giorno ha cominciato il suo discorso dicendo «Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati», e ho visto le migliori professoresse democratiche della mia generazione insorgere: come osa appropriarsi di Brecht.
Ma non si era appropriata di Brecht, si era appropriata di una delle frasi più famose presenti in ogni prontuario di citazioni, se avesse detto «mogli e buoi dei paesi tuoi» sarebbe stato uguale. Io, per dire, stavo cucinando, ho sentito con mezzo orecchio la frase e ho pensato: cheppalle, ancora Flaiano. Sarà per questo che non diventerò mai classe dirigente: non ho l’indignazione abbastanza pronta quando uno di destra cita Bertolt Brecht (o Gramsci: non è che «odio gli indifferenti» sia meno transpartiticamente abusato).
Oltretutto il passare il confine degli insulti verso chi è impresentabile ci costringe sempre ad assistere allo spettacolo d’arte varia delle opposte imbecillità, l’abbiamo visto da poco con Friedman che in tv ha detto «escort» rivolto a Melania Trump. Da una parte chi dice «ah, ora non v’indignate, se l’avesse detto della Boldrini scendereste in piazza, dov’è il vostro femminismo adesso»; dall’altra chi risponde «chi non si è indignata quella volta che la tale attrice voleva parlare della fame nel mondo e invece le hanno chiesto di che marca fosse il suo vestito non ha diritto di dirci quando indignarci»; in mezzo noi, a morire di noia.
Sì, lo sappiamo: a chi dici le cose conta almeno quanto le cose che dici. Sabato, al varietà più famoso d’America, il Saturday Night Live, il conduttore per una sera era Regé-Jean Page, il duca della serie Bridgerton. Tutto il suo monologo d’apertura, interrotto da attrici il cui ruolo era fare quelle in calore, verteva sul suo essere un oggetto di desiderio. Lo trovate su YouTube, sono cinque minuti che passerete a dirvi: se al suo posto ci fosse una donna, strepiteremmo che se ne stanno cancellando le qualità intellettuali. Ormai fare il pezzo di carne è consentito solo agli uomini.
Ma mi sono come sempre persa in premesse, e volevo invece parlare di los tres caballeros.
Nel video prontamente apparso sui social comincia a inveire contro Giorgia Meloni il professor Giovanni Gozzini. Docente universitario, rimarcano gli scandalizzati, ma a me pare più rilevante: 65 anni. «Questa pesciaiola, mi spiace d’offendere questi negozianti», dice il professore, facendo entrambe le parti in commedia: quella del picchiatello dell’internet che chiama «giornalaio» un giornalista, e quella del picchiatello che interviene per dire che quello del giornalaio è un mestiere rispettabilissimo.
E infatti ecco che arriva, del trio di amici picchiatelli, il conduttore di Controradio – la conversazione su Zoom era una diretta radiofonica di radio fiorentina – che precisa «onore agli ortolani e ai pesciaioli». «Son d’accordo anch’io», chiosa Giorgio Van Straten, anch’egli più preoccupato della reputazione dei pescivendoli (sennò poi non gli procurano la sogliola freschissima) che di quella della signora Meloni. Dovrei qui precisare che Van Straten è scrittore, ma mi sembra più utile: sessantaseienne.
Scambio tra 65 e 66: «Io li conosco i pesciaioli» «E allora non dire pesciaiola» «Datemi dei termini, cosa devo dire?» «Peracottara» «Cosa devo dire, una scrofa, cosa devo dire per stigmatizzare il livello d’ignoranza». A quel punto qualunque persona di modeste letture avrebbe obiettato, ma come ignoranti le scrofe, e allora “La fattoria degli animali”, ma Van Straten insiste: «Peracottara ti va bene?».
Non si può dire che i titoli accademici abbiano arricchito i due d’un lessico efficace. Verrebbe da dire «chi mi vuole superare potrà andare in larghezza, ma non in profondità», che sarebbe una citazione di Schopenhauer: “L’arte di insultare”, la mia copia costò dodicimila lire, nell’ipotesi che i due non se la possano permettere in euro prego Adelphi d’inviar loro un omaggio per prepararli alla prossima diretta.
Ma sto divagando, so bene che non c’è Schopenhauer che basti, e infatti Gozzini proseguiva, inconsapevole di quella che in psicanalisi si chiama «proiezione», stigmatizzando una classe dirigente «che non ha mai letto, con ogni evidenza, un libro in vita sua». Ieri Francesca Pascale faceva a lui la stessa accusa, scrivendo «Un uomo che legge tanti libri non ha questi valori». Che tu sia ex assessore alla Cultura di Firenze, o ex fidanzata di Silvio Berlusconi, comunque aver letto dei libri non ti sarà servito neppure a capire che leggere libri non ti migliora.
Non sono i libri, il problema: è il virtuale. È l’idea che se sei su Zoom non sei nel mondo, se sei su Twitter non sei nel mondo, se c’è il touchscreen non è realtà. I tizi che hanno insultato Liliana Segre per il vaccino piagnucolavano increduli che la realtà chiedesse loro conto di qualcosa che avevano fatto sull’internet. Gozzini e Van Straten, se fossero stati in uno studio radiofonico invece che a casa con le pianelle e un’idea di modernità nella webcam, non si sarebbero mai espressi come due cafoni. Due cafoni oltretutto inconsapevoli di vivere in un’epoca in cui per «scrofa» tutti chiederanno il tuo licenziamento («La mia epoca e io non siamo fatti l’uno per l’altro»: è sempre Schopenhauer).
Più urgente degli inviti alla lettura, mi pare l’invito agli anziani a non usare strumenti che non sanno maneggiare. Giorgia Meloni, che generazionalmente ha più familiarità con la contemporaneità di loro, non li insolentirebbe mai sull’internet. Se volesse dire «Nessuno scriverà mai un’Iliade se avrà avuto come madre un’oca e come padre un dormiglione, neppure nel caso in cui voglia studiare in sei università», imparerebbe da Schopenhauer, e farebbe rilegare i suoi insulti ai genitori degli accademici in un Adelphi.