«Era un cazzo come un altro, ma lui lo trattava come se gli uomini si fossero dovuti suicidare e le donne cadere in ginocchio». Sembra la brillante battuta d’una commedia sofisticata, e invece è il modo in cui, nella vita, Mike Nichols descriveva Jack Nicholson, e in particolare i momenti, sul set di Conoscenza carnale, in cui il suo personaggio stava per fare una doccia, e quello quindi si spogliava annunciando alla troupe l’importanza del momento. Forse è questo il punto, leggendo Mike Nichols: A Life, la biografia del regista appena uscita in America, in cui mi sono ricordata quanto sono innamorata di Mike Nichols (ma anche di Jack Nicholson: la monogamia è molto sopravvalutata).
A quattordici anni non sapevo niente di Nora Ephron, e comunque quando uscì il film sulle sue corna ero in collegio, lontana dalle sale cinematografiche. Heartburn lo recuperai quando tornai in città, e mi fu subito chiaro come volevo diventare da grande. Se mi avessero detto che per i successivi trentacinque anni avrei ascoltato deliri sull’importanza di vedersi sullo schermo in donne forti, non ci avrei creduto mai.
Jack Nicholson era spiritoso, era mascalzone, era pronto a prendere le vite degli altri e trasformarle in un elzeviro: alla me quattordicenne era chiaro quanto lo è alla me quarantottenne, chi voler essere davanti a quel film. Trentacinque anni dopo, non ho ancora trovato una che voglia essere lei: lagnosa, incinta, sempre ai fornelli. A quattordici anni non badavo ai sessi dei personaggi né ai nomi dei registi. Ero una ragazzina fondamentalmente sana.
A diciassette anni m’innamorai di uno con un serissimo feticismo per Jack Nicholson. Mi fece vedere un sacco di film noiosissimi. E poi una notte mi fece vedere Conoscenza carnale. La secca che diffida Art Garfunkel dallo scoparsi «quella vescica di lardo». Jack che urla ad Ann Margret «metti a posto questa cazzo di casa». E che le dice ma perché cazzo non mi lasci, giuro che ti sposerei se mi lasciassi: quindi era sempre quello lì, il tizio nel quale immedesimarmi quando lo vedevo in un film.
E Candice Bergen che guarda la conversazione tra lui e Art Garfunkel come fosse una partita di tennis: quindi si può fare un film sulle facce di quelle che ascoltano parlare i maschi. Forse fu una di quelle notti che mi vaccinai contro la scemenza di chi pensa che si debbano contare i minuti di dialogo, per capire il peso delle donne in una conversazione. Forse fu allora, che m’innamorai di Mike Nichols.
A ventisette anni ero innamorata di uno col feticismo delle piscine, della California, della luce di taglio. Il suo film del cuore non poteva che essere Il laureato, e a me del Laureato non fregava niente: mi sembrava, come Gino Paoli, roba per i miei genitori (l’età adulta è quel momento in cui Gino Paoli guai a chi te lo tocca). Mi faceva vedere in continuazione quella scena che «Plastica, il futuro è nella plastica»: sì, bella, ma che stomachevole odore di cloro ci sarà stato sul set. Finché un giorno un altro – la vita è affare di tradimenti – mi fece notare che tutto il film stava nelle facce «come cazzo mi è venuto in mente» dei due in fuga dall’altare, nel finale. Quella faccia che era il mio specchio. Forse fu allora, che m’innamorai di Mike Nichols.
Le piazzate insuperabili di Liz Taylor in Chi ha paura di Virginia Woolf?: forse fu allora, che m’innamorai di Mike Nichols. Meryl Streep che interpretando la vita di Carrie Fisher dice che la soddisfazione immediata ci mette troppo tempo: forse fu allora, che m’innamorai di Mike Nichols. Harrison Ford che prepara il cestino della merenda a Melanie Griffith: fu decisamente allora, guardandolo rendere delizioso un film scombinatissimo, che m’innamorai di Mike Nichols. Chissà quanti anni avevo, quale calendario.
No, sto mentendo. So benissimo quando. Avevo 32 anni, ero al picco del mio sentimentalismo da trentequalcosenne scema (cioè da trentequalcosenne tout court), e uscì un film in cui Jude Law era sentimentale quanto me, e Julia Roberts era feroce quanto un’adulta. A un certo punto lui frigna che lei l’ha illuso baciandolo, e lei dice a lui «Che cos’hai, dodici anni?». (Molti anni dopo avrei scoperto che per Nichols i quattro personaggi di quel film erano tutti lo stesso personaggio, perché lui era abbastanza saggio da sapere che tutti siamo a turno quella che «non avrai mica dodici anni» e quello che «ma tu mi hai baciato»; io no, io non sapevo niente: avevo 32 anni, quattro meno di quelli che aveva lui sul set del Laureato, e non sapevo trovarmi il culo con le mani).
Fu quando uscì Closer che scoprii che la sua idea di tradimento non veniva dalle commedie sofisticate né da uno dei suoi quattro matrimoni. Veniva da una volta in passeggino, una volta che aveva origliato il tradimento massimo: la mamma che si lamentava di lui, bambino, con un’amica incontrata per strada.
La mia idea dei rapporti umani l’ha plasmata Mike Nichols, il precetto non è che devi essere leale, ma che devi essere abbastanza accorto da non lasciarmi intuire la tua slealtà. Non spettegolare se ti sento dal passeggino; controlla che non ci sia la mia ex, tra le diapositive, la sera in cui mi proietterai le tue conquiste (mica come fa Jack Nicholson con Art Garfunkel); sappi mentire guardandomi negli occhi, come faceva Natalie Portman col povero Clive Owen in Closer, il manifesto del mio sentimentalismo di trentenne (il decennio in cui ci si strugge è, nelle vite umane, il più buttato, ma anche quello in cui si fa la scorta dei migliori consumi culturali).
A Life è la seconda biografia di Mike Nichols che esce in poco più d’un anno; quella del 2019 era più bella, ed è interessante che s’intitolasse Life isn’t everything: sei anni dopo la sua morte, i titoli delle biografie del regista che ha diretto i più gran dialoghi di fine Novecento dialogano tra di loro.
C’è una ragione se i dialoghi dei film di Nichols sono così pazzeschi, e non è solo perché sceglieva i più clamorosi commediografi: è il suo orecchio, quello dello straniero che impara una lingua (era arrivato, ebreo in fuga dalla Germania, in America a sette anni: in inglese sapeva dire solo «non parlo inglese» e «per favore non baciatemi»); quello del battutista.
Comincerà come comico, in coppia con Elaine May (il più gran genio di cui non abbiate mai sentito parlare: spero che Netflix faccia un qualsivoglia documentario su di lei, non posso sopportare che non ci sia un prodotto del mese a dire della sua esistenza a voi disarmati). Erano lì, per dire, la sera del compleanno di John Kennedy, quella in cui Marilyn Monroe cantava gli auguri di compleanno. Erano lì, leggevano finti telegrammi (il loro Nixon aveva scritto «se le cose non fossero andate storte, stasera sarebbe il mio compleanno»), e Mike aveva la parrucca, come sempre. Come quasi sempre.
Era rimasto calvo e glabro a quattro anni (una reazione al vaccino per la pertosse), ma il padre voleva si abituasse e non gli permetteva di usare parrucche. Per fortuna morì presto, e Mike arrivò al liceo con la parrucca che sua madre poteva permettersi. Era bruttissima. Dicono che Susan Sarandon all’università volesse fidanzarsi con lui ma le sue parrucche le facevano orrore.
Finché un amico non gli chiese di andare a Roma a tener compagnia alla sua amante mentre lei girava lì e lui era su un set a Parigi. L’amico era Richard Burton (sembra un dialogo di Verdone, e invece è tutto vero). Nichols e Liz Taylor diventarono così amici che lei chiese a quello che faceva le parrucche per Cleopatra di farne una a Mike. E così amici che lo fece esordire al cinema: Chi ha paura di Virginia Woolf?, che non l’avrete mai visto e state qui a perder tempo leggendo me.
Tutta la vita di Mike Nichols sembra l’invenzione d’un romano mitomane, ma poi ci sono i dialoghi. Dal modo in cui descrive lo yacht su cui l’ha invitato Barry Diller – «È la nona barca più grande del mondo: se fosse più della nona sarebbe volgare, non trovi?» – al modo in cui rifiuta il ruolo che gli offrono nei Soprano, quello dello psicanalista di Carmela: «Sono l’ebreo sbagliato per la parte. Dovrebbe essere il titolo della mia biografia: L’ebreo sbagliato». Sono i dialoghi, che fanno la differenza, e che rendono la vita di Mike Nichols il miglior film che possa esserci: un film di Mike Nichols.