Un obiettivo difficile ma raggiungibile. La neutralità carbonica è il grande traguardo che Stati e organizzazioni internazionali stanno cercando di raggiungere per cercare di salvare il pianeta.
Il motivo è evidente: un surriscaldamento che vada oltre la soglia degli 1,5°C, reputata sicura dal gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), causerebbe siccità, ondate di caldo, piogge intense, alluvioni e frane sempre più frequenti, oltre che danni irreversibili a mari e oceani.
Per questa ragione l’impegno globale a diventare a emissioni zero entro il ventunesimo secolo come prescritto dagli accordi di Parigi, firmati da 195 Paesi inclusa l’Unione europea, diventa tassativo.
Di tempo, d’altra parte, non ce n’é molto, come dimostrano i numeri relativi alle emissioni. I pozzi naturali, come suolo, foreste e oceani, non riescono più ad assorbire l’enorme quantità di CO2 che la Terra emette ogni anno.
Nel solo 2019 le emissioni hanno raggiunto quota 38 gigatoni, superando di più di tre volte la quantità assorbita dai pozzi naturali, stimata tra i 9 e gli 11 gigatoni. Serve fare presto: secondo uno studio di Nature Climate Change, è assolutamente importante raggiungere la neutralità carbonica visto che i gas serra già presenti nell’atmosfera, e che resteranno ancora per chissà quando, porteranno la temperatura globale a crescere di 2,3°C. Un problema che quindi riguarda tutti, compresa l’Unione europea.
Attraverso il Green Deal, Bruxelles si è ulteriormente impegnata a raggiungere una serie di obiettivi legati alle emissioni a livello sia comunitario che per i singoli Stati nazionali, a volte in misura anche ambiziosa. Lo dimostra la delibera dell’Europarlamento di ottobre 2020, che ha fissato l’obiettivo di ridurre le emissioni del 60% già entro il 2030, un traguardo persino più ambizioso di quello precedentemente fissato dalla Commissione che si fermava a un calo del 55%, e ha chiesto un ulteriore riduzione di emissioni da raggiungere nel 2040 prima di arrivare alle zero emissioni entro il 2050.
Inoltre, gli eurodeputati hanno chiesto ai singoli Stati membri di diventare climaticamente neutrali, così che la CO2 rimossa dall’atmosfera dopo il 2050 sarà maggiore di quella prodotta. Inoltre, tutti i sussidi diretti o indiretti per i combustibili fossili dovranno essere eliminati al massimo entro il 2025. A livello europeo cinque stati si sono già impegnati per raggiungere la neutralità carbonica: nel 2045 la Svezia ha stabilito che riuscirà a bilanciare le proprie emissioni, mentre nel 2050 lo faranno anche Francia, Germania, Danimarca e Ungheria. La stessa preoccupazione è condivisa anche dalle aziende private che si impegnano attivamente per cercare di bilanciare le proprie emissioni.
Eppure il tentativo di aumentare la superficie forestale di quel che tanto che serve è un espediente che non può durare molto, visto che la Terra non ha abbastanza risorse per questo, come scrive Bloomberg.
E se fossimo quindi noi i primi a doverci impegnare a salvare il pianeta? «Non siamo ancora pronti come individui a capire cosa vuol dire veramente lottare per il clima. Il surriscaldamento del pianeta è un dramma che coinvolge tutti, come dimostrano lo scioglimento dei ghiacciai e gli incendi nelle foreste. I governi devono fare di più ma è tempo di farci attivamente carico anche noi di questo immenso problema», commenta a Linkiesta Markus Gilles, CEO e cofondatore di Klima, un’app tedesca per l’ambiente nata a fine 2020 e già tra le più cliccate nei principali store.
La nazionalità non è un fattore casuale: negli ultimi mesi le startup tedesche, e in particolare berlinesi, si sono sempre più concentrate sulla protezione del clima generando spesso nuovi modelli di business, come dimostra la startup “Planetly” che analizza le emissioni di carbonio delle aziende.
Klima invece è diversa: «Il suo lavoro è semplice: per calcolare l’impronta di carbonio pone prima all’utente alcune domande sul suo stile di vita, senza entrare troppo nel personale o in dettagli che magari una persona può non ricordare, e poi calcola le emissioni. A quel punto l’app propone all’utente un piano mensile per bilanciare le proprie emissioni», spiega Gilles
Stili diversi portano a costi diversi: una dieta vegana e mezzi più ecologici significano meno emissioni rispetto a chi viaggia con frequenza e non usa fonti alternative di energia. Ma una volta calcolata l’impronta di carbonio cosa succede?
«A quel punto l’utente ha la possibilità di scegliere a quale progetto aderire. Può decidere di piantare alberi nei Paesi tropicali, come Tanzania, Madagascar o Panama; installare pannelli solari in Sudafrica o Mauritania e infine aiutare le popolazioni del Ghana a cucinare con fornelli più sicuri. Tutti progetti tangibili e che l’utente può seguire passo passo», chiarisce Gilles.
Un progetto, quest’ultimo, di assoluta rilevanza visto che 3 miliardi di persone dipendono dall’abbattimento degli alberi per cucinare il loro pasto, emettendo così tra il 2 e il 5% delle emissioni globali di CO2. Stufe più pulite permetterebbero così di tagliare le emissioni di carbonio e mantenere gli alberi al loro posto.
Il 2015 è stato un anno di svolta per Markus perché ha visto concretamente con i suoi occhi il dramma del cambiamento climatico. «Ricordo bene quanto sono rimasto impressionato da ciò che ho visto durante il mio viaggio on the road lungo il continente americano, dall’Alaska alla Patagonia. È stata la prima volta che ho apprezzato la natura ed è avvenuto in coincidenza con l’esplosione della crisi climatica. Per questo quando sono tornato a Berlino ho cercato di impegnarmi attivamente per aiutare il pianeta».
Presente oggi in 18 Paesi, Klima è una start up che dedica quasi l’80% del proprio profitto tra i progetti e costi operativi. «Il nostro lavoro si basa su tre principi: rendere i concetti di emissioni e riduzione del carbonio semplici per tutti; semplificare l’app perché sia sempre user-friendly, e quindi non noiosa come se si dovesse fare i compiti, e potenzialmente utilizzabile da tutti, senza alcuna distinzione. Io credo che lavorare per il pianeta possa unirci fortemente, anche se proveniamo da contesti diversi. Lo dobbiamo anche a coloro che non possono fare niente, come le decine di milioni di persone dei Paesi più poveri che spesso sono le prime vittime del cambiamento climatico».
La speranza è che la pandemia di coronavirus abbia cambiato la percezione generale legata all’ambiente. «Mi auguro che il Covid ci abbia insegnato quanto sia importante ascoltare gli scienziati, visto che siamo obbligati a dover combattere qualcosa che non vediamo con i nostri occhi. E poi l’altra speranza è che il Covid ci ricordi che ogni individuo conta. Tutti siamo importanti e tutti siamo parte della soluzione e questo deve valere anche per il cambiamento climatico. Non esiste un pianeta B: per questo dobbiamo essere proattivi e lavorare per un cambiamento collettivo. Solo così potremo sperare di cambiare le cose».