Voltaire a pedaliCandido, ovvero un incubo fatto a Milano (anche se non è mai nominata)

Il nuovo romanzo di Guido Maria Brera (e dei Diavoli) è una distopia dotata di grazia settecentesca: un giovane rider è convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili ma, come il suo predecessore di trecento anni fa, capirà che il florido avvenire che poteva essere, a quanto pare, non è

AP/LaPresse

I “rider” non hanno l’alone fané dei “fattorini”, parenti stretti, e ormai altrettanto appassiti (almeno nell’immaginario), dei “travet” e delle “piccinine”. E non hanno la bambocceria onomastica, ormai pressoché estinta, dei “pony express”, che facevano pensare a prati in fiore brucati da piccoli unicorni rosa.

Anzi, i rider, accoppiati fin dal nome a un’inscindibile unità tra il loro corpo e il loro mezzo di trasporto, sono figure che hanno a che fare con qualcosa di mitologico. Come i centauri, ovviamente. Ma anche come le divinità induiste, che sono appunto inscindibili dal loro “vahana” – e cioè dal loro veicolo, che li accompagna e li identifica.

I rider sono nati però in un contesto postmoderno di consegne a domicilio ultrarapide, di ristorazione semi-smaterializzata, di relazioni digitalizzate, di innovazione startuppara e di scelte, ordinazioni e pagamenti effettuati attraverso app. E la loro attività si è sviluppata enormemente (e, soprattutto, ha avuto una fruizione di massa e trasversale alle fasce di età degli utenti) nel periodo di distopia realizzata gentilmente concessoci dalla pandemia.

Abbiamo visto i rider solcare da soli, a cavallo del loro destriero con le ruote, le città deserte dell’immensa Černobyl’ globale in cui abbiamo tutti vissuto durante il grande, terrorizzato lockdown della primavera 2020. E quindi, oltre che una reminiscenza mitologica (o, anzi, forse proprio per questo?), i rider sono anche un elemento adattissimo a scenari fantascientifici di corta gittata temporale.

Scenari foschi, perlopiù, a causa l’ombra proiettata dalla pandemia a da quest’epoca di angoscia, E scenari con una curvatura steampunk, determinata dalla parte meccanica dei rider, che – fatta di pedali, catena, raggi – non è costituita da un mezzo per il volo suborbitale ma è soltanto una variante del velocipede.

Un rider, di nome Candido, è quindi il perfetto protagonista del nuovo romanzo di Guido Maria Brera e del collettivo I Diavoli, che si intitola proprio “Candido” come il suo eroe (La nave di Teseo, 214 pagine, 18 euro). Il libro è una rivisitazione dell’omonimo capolavoro di Voltaire, attraverso cui raccontare le drammatiche deformazioni che già domani potrà avere il nostro oggi (e attraverso cui illuminare anche molte cose del presente che già non stanno andando come pensavamo che avrebbero dovuto andare).

La falsariga del “Candido” è divertente. E non è soltanto una “trovata”, perché il romanzo trova poi una strada tutta sua, che lo emancipa dal ricalco. Ma proprio quella derivazione voltairiana sgrava il “Candido” di Brera dalla pesantezza comune a molta letteratura distopica. E lascia dietro di sé una grazia settecentesca da conte philosophique, capace di allegerire, pur senza stondarla, la carica di critica sociale che è il vero motore del libro (perché i rider – sia il Candido di Brera sia quelli veri – non sono davvero esseri mitologici, non sono creature ibride uomo-macchina e non sono androidi: sono ragazzi che pedalano, prendono la pioggia e il sole, rischiano incidenti stradali gravi e gravissimi, guadagnano poco, hanno pochissime tutele e perlopiù, nonostante qualche recentissimo miglioramento derivante da decisioni dei tribunali, se la passano piuttosto male).

Il Candido di Brera (e dei Demoni) fa il rider, dunque. Vive con la mamma in un appartamentino in uno dei “quartieri esclusi”. E di giorno fa consegne in bicicletta in uno dei “quartieri inclusi”, a cui si accede attraverso una scansione biometrica effettuata in una delle stazioni di controllo sulla circonvallazione e in cui si respira aria igienizzata

Tra commissioni e mance, Candido guadagna (poco) in crediti alimentari, crediti sanitari e crediti sociali ricreativi, perché questo è il sistema economico in cui vivono gli abitanti dei quartieri esclusi. I suoi crediti ricreativi il ragazzo li usa tutti per collegarsi in videochat con Cunegonda, la ragazza di cui è innamorato per «la sua pelle bianca lattiginosa, le forme sinuose, le fossette da diva e le labbra irresistibili, con quel delizioso broncio che allo stesso tempo ti attrae e ti respinge».

Questo amore virtuale di Candido è figlio dell’algoritmo. E si consuma su Voltaire, il social network pervasivo attorno al quale è costruita la società in cui vive Candido e attraverso cui, per essere poi trasmesso attraverso schermi di tutte le dimensioni nelle case private e nei luoghi pubblici, si esprime il filosofo ufficiale Pangloss, che «vede e provvede» e si esprime per massime ultraottimistiche.

Candido ha sempre creduto a Pangloss: con il suo dolcissimo, ingenuissimo, disponibilissimo, disarmantissimo (e, per noi che la leggiamo, divertentissimo e irritantissimo) entusiasmo assoluto per il migliore dei mondi possibili in cui vive e pedala, il ragazzo è cieco e sordo a ogni evidenza del contrario.

E, come il suo omonimo di trecento anni prima, Candido deforma sempre tutto per farlo aderire al dettato di Pangloss e agli slogan diffusi dal social network Voltaire: «Candido (…) si rimette in posizione: zaino in spalla, mani sul manubrio, gomiti stretti, testa bassa, schiena parallela alla canna. E via a pedalare. Mentre sfreccia tra le arterie cittadine (…) riconosce gente felice come lui, che guarda al futuro e s’impegna perché sia meraviglioso. Anche il barbone sdraiato sulla panchina sembra contento, tenendo in mano una lattina di birra calda agita forsennatamente l’altra mano verso di lui, come per dirsi d’accordo con il suo ottimismo. Più avanti, un imbianchino precipita dal ponteggio mentre decora di rosa pastello l’insegna di una pasticceria. E poco distante una bambina piange miserabile come solo i cuccioli sanno essere. Ora l’imbianchino, pensa Candido colmo di gioia, le regalerà di sicuro un dolce, di quelli profumati appena sfornati dalla pasticceria, e lei smetterà di singhiozzare. I due si abbracceranno e tutto tornerà a posto, com’è giusto che sia, nella perfetta armonia universale che regola i bisogni degli uomini».

Poi la realtà avrà finalmente la meglio. E neanche «le iridi color miele e nocciola e le sfumature paglierine» degli occhi di Cunegonda potranno impedire a Candido di aprire finalmente i suoi, di occhi. E di cominciare a capire che il suo mondo, il mondo di chi come lui vive nei “quartieri esclusi”, non è affatto il migliore tra quelli possibili.

“Candido” è un nuovo capitolo del severo ripensamento di Guido Maria Brera sul mondo in cui viviamo tutti e in cui vive anche lui, che a neanche trent’anni è stato tra i fondatori del Gruppo Kairos e ha poi sempre lavorato nell’alta finanza.

Mentre «ribalta l’entusiasmo di chi crede ciecamente nella tecnologia, mostra le brucianti contraddizioni del capitalismo contemporaneo, e racconta il florido avvenire che poteva essere e, a quanto pare, non è» (così dice il risvolto editoriale), il “Candido” di Brera non si appiattisce sulle solite caricature rifritte della “critica al neolibbberismo”: la sua distopia è arricchita di elementi di varia natura che raccontano più gustosamente, e quindi più spaventosamente, «il florido avvenire che poteva essere e, a quanto pare, non è».

Nel romanzo non ci sono solo le aberrazioni di un capitalismo inumano (e quindi il classico “sfruttamento”). Né c’è solo il ritratto di una finta concorrenza che non stimola niente di buono ma stimola solo l’homo homini lupus («È finita l’epoca in cui le tutele dei lavoratori frenavano la libera impresa, soffocavano la concorrenza, impedivano la crescita del dipendente che finiva con l’adagiarsi su uno stipendio sufficiente a mantenere se stesso e la famiglia. Ora il lavoratore non è più un salariato, è a tutti gli effetti un’impresa, agisce in concorrenza con i colleghi, fa quello che vuole e ne accetta le conseguenze. Tutte. Anche l’asportazione della milza»).

Nel “Candido”, oltre a queste, ci sono anche altre storture perché le presunte soluzioni, spesso, sono peggio del male che vogliono curare. E se il social network che organizza la società perfetta e che prende il suo nome da un filosofo illuminista non bastasse come esempio, eccone altri due.

Il primo: «Voltaire ha pensato anche a questo, e il Consiglio cittadino ha istituito da tempo un reddito disciplinare di cittadinanza (…). Qui non si decide infatti di restituire ai cittadini il valore che è stato loro estratto ogni volta che si collegavano a Voltaire, men che meno di tassare multinazionali con sede nei paradisi fiscali e utilizzare quei soldi per garantire a tutti una vita dignitosa (…). Voltaire non ha istituito un reddito di base universale incondizionato, minimo ritorno per il lavoro vivo di cui si è appropriato gratuitamente, ma ha istituito un reddito disciplinare di cittadinanza basato come i crediti sociali su un sistema di premi e punizioni, la cui funzione è ancora una volta sorvegliare e punire».

Il secondo: «L’ineffabile sistema giudiziario della città si basa sul principio della presunzione di colpevolezza, per sgravare il cittadino dalla fatica di doversi professare innocente e togliergli l’immane peso che schiaccia l’anima se così non fosse. Il Consiglio della città ha infatti deciso di considerare ogni cittadino colpevole fino a prova contraria. Se poi al processo riuscirà a dimostrare che la sua colpa è minima, mai minore di quello per cui Voltaire lo accusa ma nemmeno maggiore, potrà cavarsela con poco; altrimenti sarà compito della giuria popolare del Palazzo per la Risoluzione Amichevole delle Controversie, il tribunale televisivo della città, stabilire tutte le eventuali altre pene accessorie».

Nel “Candido” – accanto alla già citata levità volterriana, che ne pervade soprattutto le prime pagine, e alle arguzie con cui si riadattano all’“era dei rider” le disavventure settecentesche – c’è anche un secondo livello di ammicco alla letteratura del passato (in questo caso recente): il racconto “di lotta”, spesso avanguardista, di alcuni scrittori seventies italiani. Infatti, il libro è dedicato, oltre che “ai rider schiavi dell’algoritmo”, a Nanni Balestrini.

E in Martino, libraio del “quartiere escluso” di una mai nominata Milano di domani, sembra di intravedere, e chissà se sarà un’allucinazione, la figura di Primo Moroni: l’autore, proprio insieme a Balestrini, de “L’orda d’oro”, la lonely planet per rivisitare quel decennio (1968-1977) di movimenti, giovanili e non, italiani.