Nuovo disordine mondiale Il futuro delle relazioni internazionali potrebbe essere l’anarchia

Secondo un lungo articolo di Unherd, le grandi potenze (globali e regionali) sono sempre meno capaci di gestire i conflitti: la tendenza a utilizzare mercenari, truppe locali e attacchi aerei ha modificato il modo in cui si fa la guerra. Una soluzione potrebbe essere provare a tornare alla situazione precedente (anche se non piacerà alle opinioni pubbliche occidentali)

AP Photo/ Khalil Hamra

L’ordine mondiale a cui siamo abituati ha subìto molti cambiamenti negli ultimi anni, e forse le relazioni internazionali sono entrate in una nuova normalità, una stabilità instabile che può ricordare da vicino l’anarchia. Ne scrive il giornalista Aris Roussinos in un lungo articolo pubblicato dalla rivista online Unherd, la cui tesi è che «l’anarchia sta arrivando».

Secondo Roussinos, la tendenza a utilizzare i «proxy», cioè milizie irregolari, per intervenire indirettamente (o intervenire senza intervenire) nei conflitti, ci sta portando in un campo completamente nuovo della guerra. 

«Come la prima guerra civile spagnola, la decennale guerra civile siriana, un conflitto perennemente in procinto di concludersi che tuttavia potrebbe non finire mai del tutto, è stata un presagio di nuove pericolose tendenze le cui piene implicazioni dobbiamo ancora comprendere».

Non è casuale, scrive Roussinos, che la nuova Integrated revue (una sorta di libro bianco della difesa) dell’esercito britannico rilevi come in futuro sarà molto probabile che gli avversari del Regno Unito utilizzeranno truppe irregolari per sfidare l’ordine internazionale. Da qui, la necessità di un nuovo reggimento d’élite dei “Ranger” formato proprio per consigliare e combattere accanto a truppe irregolari britanniche. 

Nel loro libro Surrogate Warfare, i professori Andreas Krieg e Jean-Marc Rickli analizzano questa tendenza, una sorta di “medievalizzazione” delle relazioni internazionali. Secondo la loro tesi, la crisi del sistema statale che si è imposto in occidente dopo la pace di Westfalia (1648), ha provocato «la sostituzione degli Stati nazionali con una rete sovrapposta di istituzioni transnazionali e sub-attori nazionali, che ha prodotto una crescente anarchia causata anche dall’arrivo di nuove tecnologie e dalle conseguenze non intenzionali della globalizzazione».

Tutto questo è dovuto all’asimmetria dei nuovi conflitti, sostengono i due professori: «l’11 settembre e la diffusione del jihadismo globale, i massicci flussi migratori transnazionali, la crisi del 2008 e il crollo diffuso dell’autorità statale in Africa e Medio Oriente fanno apparire come anomalie storiche le concettualizzazioni idealiste e classiche del conflitto apparse nel diciannovesimo e ventesimo secolo».

Questa nuova realtà, ragiona Roussinos, è particolarmente difficile da affrontare per gli Stati tradizionali, che non sembrano strutturalmente preparati a farlo. Questo vale per l’occidente liberale, ma non solo: anche i paesi più autoritari hanno problemi simili, scrive il giornalista. 

«Le nazioni sono spinte a intervenire in guerre complesse e intricate, con forti caratteri etnici e settari. Il primo problema è che questi interventi sono guidati da un mix instabile e spesso contraddittorio di preoccupazioni umanitarie, paure per la sicurezza e realpolitik. Il secondo problema è che i loro cittadini sono sempre più avversi alle vittime, in particolare nelle guerre non di ovvia necessità strategica».

E qui si torna all’inizio dell’articolo: come si risolve questa scarsa volontà di impiegare i propri cittadini per combattere queste guerre? Spostando il peso dei combattimenti sui «proxy» sacrificabili.

Il problema è che questo tipo di truppe sono poco controllabili e non hanno sempre agende sovrapponibili a chi immagina di riuscire a farlo. Oltre al fatto che, essendo mercenari, hanno tutto l’interesse a che i conflitti non finiscano. 

«La catastrofica guerra civile in Siria, il conflitto parallelo in Yemen e la crescente destabilizzazione di Iraq, Libano e Libia esemplificano queste tendenze, dove attori esterni come Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran e i regni del Golfo interferiscono con i “proxy” come se fossero degli scacchi, mentre i loro droni, missili balistici e jet devastano il terreno su cui combattono. Invece di democratizzare il Medio Oriente come prima speravano gli esperti, l’intersezione involontaria tra Primavera araba, globalizzazione e nuove tecnologie ha trasformato la regione in una gigantesca arena di sperimentazione nella guerra del ventunesimo secolo».

Gli esiti, naturalmente, sono catastrofici soprattutto per le popolazioni autoctone, che cercano di fuggire in tutti i modi, destabilizzando i paesi vicini che sono costretti ad accoglierli.

Il fatto che le guerre in Siria, in Libia e in Yemen siano diventate conflitti di rilevanza internazionale le ha rese particolarmente sanguinose. Il motivo è semplice: gli Stati che intervengono in territori così lontani dalle loro capitali non hanno interesse a tenere a freno la loro attività militare: gli attacchi via drone, ad esempio, vengono usati senza troppi scrupoli.

Inoltre, aggiunge Roussinos, da anni si dice che in Medio Oriente Russia, Turchia e Iran siano impantanati in conflitti che non possono permettersi, ma non ci sono mai stati particolari contraccolpi: «Questo accade perché adesso questi conflitti sono alla portata di potenze di media grandezza, viste le basse barriere all’ingresso e il fatto che nessuno abbia interesse a farli finire in fretta. È per questo motivo, non solo per l’instabilità intrinseca delle nazioni che li subiscono, che i conflitti della Primavera araba sono proseguiti così a lungo».

La guerra in Siria, però, ha un tratto distintivo che la rende per certi versi unica, diversa da tutte le altre. A fare la differenza è il ruolo giocato dai social media e da internet, con Facebook e Twitter che nell’ultimo decennio si sono imposti come cassa di risonanza di giornalisti, attivisti e responsabili politici.

Solo che il risultato non è stato positivo né per il giornalismo né per la Siria stessa: «I social non solo hanno cambiato i modelli di comunicazione tra le comunità, ma sono diventati anche un importante mezzo di guerra a loro volta: sono un’arma che plasma attivamente la guerra stessa, trasformando coloro che la condividono in partecipanti», si legge nell’articolo.

E a questo si aggiunge che i toni usati, allo stesso tempo banali e tossici, hanno finito per semplificare in “buono contro cattivo” un conflitto complesso, in cui si scontrano diverse forze: da al-Qaeda allo Stato islamico, dalle milizie fedeli ad Assad ai ribelli e i curdi.

«Twitter – spiega Roussinos – è stato il mezzo dominante con il quale il mondo occidentale è stato incantato dal dramma della guerra e dallo spargimento di sangue: agendo come un reclutatore dello Stato islamico, Twitter ha chiaramente peggiorato l’esito della guerra sia per il popolo siriano che per vicino Iraq. Insomma, questo social ha contribuito a plasmare le scelte degli attori esterni, quelli di altre nazioni, che hanno prolungato il conflitto».

In questa dinamica lo Stato islamico ha saputo ritagliarsi un ruolo da protagonista assoluto, da attore principale. Lo si nota ad esempio con i tanti video prodotti con il solo intento di creare dei contenuti scabrosi da far ri-condividere sui social tanto alle persone comuni quanto ai giornalisti che, con l’intento di denunciare, non facevano altro che diffondere la propaganda dell’Isis.

Forse nessuno Stato ha saputo muoversi su questo terreno nuovo e ostile come la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin. «Sebbene entrambi utilizzino le rispettive reti televisive come forme tradizionali di propaganda – si legge su Unherd – sono anche manipolatori sofisticati e competenti del campo di battaglia online».

Un esempio è il ruolo giocato della Turchia in Libia e nella guerra del Karabakh, la Turchia ha saputo usare le conoscenze derivate dal conflitto in Siria per produrre contenuti ad hoc per i social: ha usato le telecamere dei droni per diffondere immagini di guerra che i giornalisti hanno ricondiviso online con grande entusiasmo.

Allo stesso modo la Russia ha ricavato dalla guerra in Siria immagini da regalare ai suoi fan sui social media. «Drone, telecamera e condivisioni online diventano così un’arma da usare nel conflitto, al pari di tutte le altre armi. E i giornalisti non sono più cronisti di conflitti politici, ma partecipanti attivi, delegati di una guerra di narrativa tentacolare e decentralizzata», si legge nell’articolo.

Così come i giornali di carta avevano guidato l’ascesa del nazionalismo all’inizio del ‘900, oggi internet ha prodotto nuove identità politiche, micro-nazionalismi e ideologie mai viste prima, comunità generate unicamente dalla realtà in rete.

Ma questo non significa che l’ordine westfaliano basato sul primato dello Stato-nazione sia già finito: «Stiamo già assistendo ai primi moti di de-globalizzazione mentre gli Stati-nazione, lottando per la propria sopravvivenza, cercano di riprendere il controllo del proprio destino», scrive Roussinos.

Allora è probabile che il prossimo passo sia un tentativo di riappropriarsi dello spazio fisico – non solo il cyberspazio – da parte degli Stati. Anche nei conflitti.

«Gli Stati – conclude Roussinos – potrebbero essere costretti a tornare alle guerre di cittadini soldati per preservare il loro posto in un sistema globale recentemente fratturato. Per vincere un conflitto tra pari concorrenti, guerre di necessità e non di scelta, gli stati saranno costretti a riaffermare il loro controllo dello spazio fisico e virtuale in un modo che non abbiamo visto da decenni. se il punto più alto della globalizzazione è già stato raggiunto, la sua marea in declino potrebbe ancora rivelare che il sistema della Westfalia è nato di nuovo».

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