Il mistero avvolto in un enigmaIl dialogo impossibile tra Europa e Russia fin quando comanderà Putin

Saprà l’Ue del dopo Merkel essere più inclusiva, ponendo come condizione l’irrinunciabile rispetto dei diritti umani e sociali e dei principi di democrazia?

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Un tempo fu la santa madre Russia, la Rodina, poi l’Unione Sovietica, oggi è il possedimento privato di Vladimir Putin e degli oligarchi nato dalla  dissoluzione del più inquietante sogno di una società impossibile.

Pochi giorni fa Michail Gorbaciov ha compiuto novant’anni e le tante interviste hanno mostrato un uomo capace di commuoversi, come tanti vecchi in ogni parte del mondo certo, ma con quel qualcosa in più che è tipico di quella terra e che ha resistito nonostante ogni materialismo fattuale e dialettico: il sentimento di una grande anima che è da sempre il mood della gente russa.

Non un sentimento religioso, laico o razionalista, piuttosto una spiritualità intensa e profonda che trae la propria origine dalle caratteristiche geografiche, storiche e persino ideologiche di quell’immensa parte dell’Europa che tracima in un’Asia affascinante, sciamanica e misteriosa.

Nel Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale su “Ivanov e la cultura del suo tempo”, tenuto il 28 maggio 1983, Giovanni Paolo II dichiarò: «La divisione storica delle Chiese è una ferita sempre aperta. Confessando, nella basilica di San Pietro di Roma, il 17 marzo 1926, il Credo cattolico, Ivanov aveva coscienza, come scrisse a Charles du Bos, di “sentirmi per la prima volta ortodosso nella pienezza dell’accezione di questa parola, in pieno possesso del tesoro sacro, che era mio dal battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un tisico, che con un solo polmone” (V.Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930, dans V.Ivanov et M.Gerschenson, Correspondance d’un coin à l’autre, Lausanne, Ed. L’âge d’homme, 1979, p. 90). È la stessa cosa che dicevo anch’io a Parigi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche, il 31 maggio 1980, ricordando la mia visita fraterna al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli: “Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale” (Giovanni Paolo II, Allocutio Lutetiae Parisiorum ad Christianos fratres a Sede Apostolica seiunctos habita, 31 maggio 1980)».

Il paragone tra l’Occidente cattolico e l’Oriente ortodosso e i due polmoni della Chiesa universale, citato a più riprese da Giovanni Paolo II, è ormai divenuto proverbiale; pochi però sanno chi lo ha coniato e scolpito nella memoria delle generazioni. Il suo nome? Vjaceslav Ivanov il poco noto poeta russo nato a Mosca nel 1866, attratto dal mondo dell’antichità, che viaggiò a lungo e studiò a Berlino lingue antiche, filosofia e filologia, dedicandosi poi ad approfondire il culto dionisiaco e l’origine della tragedia. 

Stabilitosi nel 1905 a Pietroburgo, divenne un protagonista del movimento simbolista russo. Accolta senza entusiasmi la rivoluzione del 1917, fu docente di filologia all’Università di Baku dal 1920 al 1924, quindi emigrò in Italia dove morì nel 1949. È sepolto nel cimitero acattolico di Roma, ai piedi della Piramide Cestia e che ispirò a Pier Paolo Pasolini “Le Ceneri di Gramsci”. 

La migliore biografia di Ivanov è contenuta nell’antologia “Il fiore del verso russo” curata dal critico letterario Renato Poggioli nel 1949 e ripubblicata da Einaudi nel 2009. Qui va riconosciuto il valore del poeta moscovita nell’aver compreso, e cantato, l’intima connessione dell’anima europea che in alcun modo può fare a meno del proprio versante orientale come, peraltro, non può ignorare il proprio Grande Nord o l’area mediterranea.

Di tanto siamo debitori alla letteratura russa di prima, durante e dopo la Rivoluzione d’ottobre e potente è stato il ruolo che i suoi massimi interpreti hanno avuto nella costruzione dell’identità europea: Nikolaj Gogol, Maksim Gor’kij,  Alexander Puskin, Fiodor Dostoievsky, Lev Tolstoj e, successivamente,  Vladimir Nabokov, Evgenij Evtušenko, Iosif Brodskij – che ricevette il Premio Mondello-Città di Palermo nel 1979 che avrebbe anticipato di dieci anni il Nobel –  Vladimir Bukovskij, Boris Pasternak, Andrej Sinjavskij, Aleksandr Solženicyn, Evgenija Ginzburg, Vladimir Semënovič Vysockij, Varlam Šalamov.

Cosa saremmo oggi senza la musica di  Michail Ivanovič Glinka e dei fratelli Anton e Nikolaj Rubinštejn,  di Pëtr Čajkovskij, Sergej Rachmaninov. Aleksandr SkrjabinIgor’ Stravinskij,  Sergej Prokof’evDmitrij Šostakovič e Al’fred Šnitke?

Per tacere del cinema, della pittura e di ogni altro genere di arte di cui non possiamo che essere tributari. Alla Russia si sono ispirati grandi registi italiani come ha raccontato Il Manifesto, recensendo il volume “Russia Italia, un secolo di cinema” ideato dall’Ambasciata italiana a Mosca e curato da Olga Strada e Claudia Olivieri per ABCDesign nel 2020 

Soltanto cultura? No. La più nota tra le vetture che, con centinaia di migliaia di chilometri ben evidenti sul cruscotto, percorrono ancora oggi le strade di Mosca e San Pietroburgo come di Baku, Groznyj, Sebastopoli o Jakutsk è un prodotto dello scambio tra ingegneria italiana e produzione sovietica. La cittadina sul Volga Stavropol’-na- Volge ottenne lo status di città nel 1780. Durante gli anni cinquanta il riempimento della diga di Kujbyšev costrinse le autorità a ricostruirla completamente in un luogo diverso. Il 28 agosto 1964 assunse la denominazione attuale in onore di Palmiro Togliatti, il segretario del Partito Comunista Italiano morto una settimana prima.

Nel dicembre 1996 si svolse un referendum comunale riguardante il ripristino della denominazione originale. Il referendum, anche se non vincolante (per un’affluenza al voto di solo il 48,6% degli elettori), vide l’82% favorevole a conservare il nome di Togliatti.

Nel novembre del 1972 vi era andato a regime  lo stabilimento del VAZ (acronimo in russo di Stabilimento Automobilistico del Volga) che la Fiat aveva progettato, costruito e consegnato, chiavi in mano, all’Unione Sovietica. La produzione, iniziata nel 1969, sarà, su base annua, di 600.000 vetture, di cui 400.000 Fiat 124 (berlina e familiare) e 200.000 Fiat 125, opportunamente modificate dalla stessa Fiat per fronteggiare le condizioni climatiche e infrastrutturali del territorio sovietico, con una occupazione di circa 60.000 lavoratori.

In realtà i rapporti commerciali ed economici con l’Unione Sovietica erano già iniziati negli anni venti del secolo scorso, quando la Fiat incaricò un antifascista esule in Francia, il giornalista torinese Oddino Morgari, di avviare contatti commerciali permanenti con il governo di Mosca. Negli anni trenta la Fiat realizzava il progetto completo per la costruzione di una fabbrica di grandi dimensioni per la produzione di cuscinetti a sfera nelle immediate vicinanze di Mosca e, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, portava a compimento la costruzione di un altro stabilimento per fusioni in lega leggera.

A metà degli anni cinquanta Vittorio Valletta riaffidava ad intermediari il compito di riavviare i contatti con i ministeri moscoviti, nell’ottica di possibili e profittevoli intese politiche ed economiche tra la Fiat e l’Unione Sovietica.

Grazie a questi contatti, nel 1961 l’azienda torinese partecipò, insieme all’Ansaldo, a una commessa per la produzione di una serie di petroliere, di cui la Fiat fornì i propulsori, e nel febbraio 1962 il governo sovietico annunciò l’iniziativa di organizzare a Mosca, nella primavera successiva, una mostra di prodotti, mezzi e sistemi di produzione Fiat. L’operato della Fiat aprì peraltro una serie di problematiche internazionali.

Il “Professore”, come era chiamato Valletta, intuendo la potenzialità dei contatti con l’Unione Sovietica, probabilmente favoriti anche da responsabili del PCI, il più grande partito comunista dell’occidente, non intendeva comunque assumere specifiche iniziative senza consultare il governo italiano, ma soprattutto senza prima informare gli americani ed ottenerne un’approvazione di massima.

Dopo la visita del primo ministro sovietico Kossighin alla Mirafiori, nel 1965 fu conclusa a Mosca un’ intesa di massima concentrata sulla produzione di automobili. Nel frangente il consiglio comunale di Torino, a maggioranza democristiana, sostituì, con una deliberazione unanime, il nome di una delle principali vie, che dal centro cittadino porta a Mirafiori, dal sabaudo corso Stupinigi all’attuale corso Unione Sovietica.

All’intesa di massima seguì poi nel maggio 1966 la firma a Torino di un protocollo avente ad oggetto le trattative finalizzate allo studio del progetto di uno stabilimento e della costruzione dello stesso in URSS per la produzione di automobili FIAT.

Il 15 agosto 1966 a Mosca veniva dunque firmato con le massime autorità sovietiche l’accordo definitivo per la progettazione e costruzione di uno stabilimento chiavi in mano per la produzione di vetture Fiat da realizzare nella zona industriale della città russa sul Volga.

Il progetto industriale coglieva appieno le aspirazioni della Fiat a consolidarsi su mercati avidi di progredire anche sul piano dell’industria leggera (meccanica in particolare), al fine di crearsi solide teste di ponte prima dei più reputati concorrenti europei (tedeschi e francesi in particolare), ed insieme rispondeva al meglio alle ambizioni politiche di tornare sulla scena internazionale da protagonisti (utilizzando la leva economica di un capitalismo rigenerato dal periodo del boom della prima metà degli anni sessanta).

Ne derivò l’ipotesi di lavoro, forse anche la scommessa, coltivata con il Progetto URSS, di sottoporre l’intero complesso di Mirafiori a una duplice tensione: produrre ingegneria impiantistica vendibile ed esportabile parallelamente a un cospicuo incremento di rinnovamento e automazione sul prodotto interno e tradizionale, l’automobile appunto, fertilizzando tutte le sinergie nascenti da questo incrocio di attenzioni e di tensioni.

Valletta, dopo aver motorizzato l’Italia prima con la Balilla e la Topolino e poi con la 500, la 600 e la 1100, non vide però i risultati della sua ultima sfida: morì infatti il 10 agosto del 1967.

Ma in realtà quali furono i costi e i benefici, anche in termini indotti e successivi alla attuazione del Progetto stesso in URSS? Sul conto economico del progetto, pur in assenza di documentazioni assolutamente probanti, si era ben presto diffusa negli anni successivi la certezza di un risultato non soddisfacente, anche se ciò probabilmente era stato già dall’inizio in parte immaginato o previsto.

Il costo indotto, di impatto più profondo, anche se non avvertito nell’immediato, fu quello di aver eccessivamente divaricato l’insieme monolitico delle risorse ed energie Fiat (in un certo senso la sua missione industriale originaria), polarizzandone il meglio e per un tempo non breve sul progetto sovietico, a danno di una crescita equilibrata e costante della gestione di gamma, ampiamente necessaria alle soglie dei critici anni settanta, mentre il mondo automobilistico e segnatamente la concorrenza diretta preparava novità e si disponeva a un mercato senza più steccati come solo moltp dopo avrebbe compreso, e attuato, Sergio Marchionne.

Circoscritto quell’episodio di non poco conto nella storia industriale italiana, dove, e soprattutto quando,l’Europa ha sbagliato nel rapporto con la Russia? Certo non durante la Guerra Fredda  quando indiscutibili e motivati erano gli assetti stabiliti nella conferenza di Teheran del 1 dicembre del 1943 tra Roosevelt, Stalin e un sospettoso Churchill che già nel 1939 aveva dichiarato: «Non voglio arrischiarmi a fare delle previsioni su come agirà la Russia. È un mistero avvolto in un enigma, un assoluto rompicapo». 

Non sbagliò quando il mondo libero condannò le repressioni di Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968 né quando fu edificato il Muro di Berlino nel 1961, neppure durante la crisi dei Missili di Cuba che l’anno successivo rischiò di portare il mondo sull’orlo del conflitto. Non sbagliò nemmeno in seguito quando, nonostante samiztadt e intellettuali del dissenso,  il potere sovietico era ancora saldamente in mano ai gerontocrati che lo amministravano dall’alto della mura del Cremlino, confidando peraltro nella fedeltà di due generazioni di sovietici allevate nel culto di Lenin e di Stalin.

Le circostanze sarebbero potute essere propizie dopo l’8 dicembre del 1987 quando Ronald Reagan, che aveva caratterizzato il primo e parte del secondo mandato presidenziale all’insegna del contrasto a «l’impero del male» sottoscrisse con Michail Gorbaciov l’INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) a seguito del vertice di Reykjavík tenutosi l’11 ottobre 1986 tra i due capi di stato. Il trattato fu il primo frutto del cambio al vertice dell’Unione Sovietica e pose fine alla vicenda degli euromissili, ovvero dei missili nucleari a raggio intermedio installati da USA e URSS sul territorio europeo: prima, gli SS-20 sovietici e, in seguito alla cosiddetta precedente “doppia decisione”, cioè condizionata dalla reciprocità,  della NATO del 1979, i missili americani IRBM Pershing-2 e i cruise da crociera BGM-109

Quel trattato scadeva nell’agosto del 2019 ma già in febbraio Donald Trump decise di non rinnovarlo come ora il New Start (New Strategic Arms Reduction Treaty)  – unico patto bilaterale fra Stati Uniti e Russia nonché l’unico trattato ancora vigente in materia di disarmo nucleare – del 2010 firmato da Barack Obama e Dmitrij Medvedev e scaduto il 5 febbraio di quest’anno. Che ci siano anche queste fiches sul tavolo da poker tra Joe Biden e Vladimir Putin?

Nell’ormai lontano 1987, il trattato era il segnale del nuovo corso di Mosca, ridotta alla stremo anche a motivo della folle corsa verso la realizzazione dello scudo spaziale sulle cui immani spese l’economia sovietica era saltata e con essa anche i granitici equilibri del passato all’interno del Patto di Varsavia. Sarebbe seguito a febbraio del 1989 il ritiro delle truppe dell’Armata Rossa dall’Afghanistan, la caduta del Muro e la fine della DDR su cui esplicitamente l’uomo che aveva coniato i termini glasnot (trasparenza) e perestroika (ristrutturazione) quali caposaldi del proprio programma politico interno ed internazionale e divenuti slogan in tutto il mondo, non volle intervenire. 

Il 25 dicembre 1991 Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990 ma già fiaccato dal misterioso colpo di stato dell’estate, si dimise da presidente dell’Unione Sovietica e dichiarò abolito l’ufficio, inoltre conferì tutti i poteri e l’archivio presidenziale sovietico al presidente della Repubblica Russa Boris Eltsin, frattanto diventato presidente della Federazione nel mese di luglio. Alle 18.35 del 25 dicembre, giorno feriale secondo il calendario giuliano che celebra il Natale tredici giorno dopo quello gregoriano, la bandiera sovietica sopra il Cremlino fu ammainata e sostituita con il tricolore russo. Infine, il 26 dicembre il Soviet Supremo dissolse formalmente l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche proclamata il 30 dicembre del 1922 da Vladimir Ilic Uljanov, Lenin e durata poco più di settant’anni, abbastanza per condizionare e segnare profondamente il “secolo breve”.

Perché la Comunità Economia Europea, che si apprestava a varare il Trattato di Maastricht nel medesimo anno, non volle intercettare quel momento storico cruciale, offrendo alla Russia la prospettiva di ben altra Unione su cui edificare il proprio futuro? Confidava forse nella spartizione delle spoglie di quell’impero com’era avvenuto meno un secolo prima con quello ottomano? Assistette pertanto passivamente al progressivo passaggio di imprese pubbliche, asset strategici, risorse nucleari e di ogni altro genere al regime degli oligarchi. Aveva però sottovalutato l’ascesa dell’ex agente del KGB, Vladimir Putin, pupillo di Yurij Andropov, divenuto personaggio politico di altissimo livello, Primo Ministro della Federazione scelto da Eltsin nel 1999 e, dopo la malattia di quest’ultimo, presidente ad interim per pochi mesi.

Nel 2000, appena eletto per la prima volta alla massima carica, concesse la già pattuita totale immunità al proprio predecessore, dando inizio a quella democratura che egli domina – pur con avvicendamenti di facciata con Dmitrij Medvedev – ancora oggi e chissà quanto a lungo ancora, schiacciando lungo il proprio percorso la schiera dei propri oppositori di cui Aleksej Naval’nyj è il più recente e pericoloso esponente. 

Naval’nyi è impossibile da eliminare per la grande attenzione con cui in Occidente si seguono le sue vicende, dopo il primo tentativo esperito in suo danno nel 2020 e nonostante l’abbandono, tuttavia discutibile, della sua causa da parte di Amnesty International il mese scorso per le posizioni nazionaliste assunte dal prigioniero di Putin. 

Ci si chiede se, ove non facesse parte della NATO, un percorso analogo a quello russo riguarderebbe oggi anche la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, proteso verso il ripristino dell’impero ottomano come Putin lo è verso quello zarista. Due questioni in merito alle quali, mentre veniva irriso per le note vicende personali certamente non degne di uno statista, Silvio Berlusconi, unico in Europa, ha più volte palesato negli anni la propria preoccupazione e rivendicato in più occasioni un primato di mediazione verso Russia e Turchia, pur alla sua bizzarra maniera.

Riuscirà Mario Draghi nel corso della presidenza del G20 a recuperare i passi perduti e le occasioni sprecate in troppi anni nei confronti di due nazioni che sono comunque parte irrinunciabile della storia europea? Saprà l’Europa del dopo Merkel essere più inclusiva, ponendo tuttavia come condizione l’irrinunciabile rispetto dei diritti umani e sociali e dei principi di democrazia? Non possiamo saperlo, ma sia lecito immaginare come evolverebbe l’Unione in un mondo in cui potrebbe non essere sufficiente il baluardo di Joe Biden nei confronti della Cina di Xi Jinping pronta a prendere tutto il piatto con ogni sorta di bluff.

Mai quanto oggi però, siamo consapevoli di quanto sia essenziale respirare con entrambi i polmoni, sforzandosi di curare in ogni modo le patologie che affliggono l’uno o l’altro. 

Un passaggio d’epoca che possa smentire quanto Fiodor Dostojewski nel 1877 scrisse nel “Diario di uno slavofilo”: «Oh se sapeste come è cara a noi sognatori slavofili l’Europa, quella stessa Europa che secondo voi, noi odiamo, quel paese dei sacri prodigi…Temiamo che essa non ci capisca e come prima, come sempre, ci accolga con alterigia e disprezzo e con la sua spada, come barbari selvaggi indegni di parlare davanti a lei».

Una trappola fatale sempre pronta per chi non sa distinguere dietro il volto impassibile e le mani insanguinate degli autocrati di ogni tempo, i popoli che essi opprimono.