Modello Ellen RipleyUn monologo alternativo spiega perché le donne di destra hanno più potere di quelle liberal

Flavia Perina usa il format lanciato da Barbara Palombelli a Sanremo e racconta, citando Ritanna Armeni, che nei partiti di sinistra la parità di genere è garantita dagli statuti, mentre nel mondo conservatore le ragazze devono combattere molto di più perché sanno che non arriveranno né regali né quote a proteggerle

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Personalmente spero che il format “monologo biografico delle donne” lanciato da Barbara Palombelli si affermi in tutti i programmi tv. Ad es. mi piacerebbe sentire un monologo biografico di Filippa Lagerback – l’ultima “valletta” della tv italiana – in apertura del programma “progressista” di Fabio Fazio e anche uno di Anna Finocchiaro, che molti indicano come ideale reggente del Partito democratico senza peraltro spiegare perché, se così ideale, sia stata cancellata per anni dai radar. Nel frattempo, se interessa, fornisco il mio, nel quale azzardo anche una risposta alla domanda di questi giorni: perché le donne di sinistra – nei partiti, in tv e in molti altri luoghi – hanno meno potere di quelle di destra?

Grande rispetto per il femminismo e le sue madrine e interpreti, ben raccontate in questi giorni a cavallo dell’Otto Marzo dalle decane del giornalismo e dell’opinionismo italiano. E tuttavia, ovunque manca un dato, perché se è vero che nei ’70 il femminismo fece moltissimo con le sue intellettuali, scrittrici, animatrici di movimenti, è innegabile che pure quelle che non ne furono toccate – quelle che non facevano politica, quelle che la facevano da un’altra parte – parteciparono all’esperienza generazionale dello “women’s power” per altre vie, più profonde e trasversali di quello che comunemente si pensa, con tratti che accomunano destra e sinistra ben oltre gli stereotipi.

Noi ragazze degli anni ’70, tutte, andammo al cinema e scoprimmo il carisma della Principessa Leila, capo della ribellione in Star Wars, sarcastica e spavalda come un uomo ma anche bellissima. Applaudimmo il coraggio di Ellen Ripley nel primo Alien, una donna sola nello spazio contro un mostro invincibile. Insomma, scoprimmo attraverso i film un nuovo immaginario che rovesciava il canone femminile della modestia e della subordinazione, ben prima di razionalizzarlo in una posizione politica.

Voi che leggete, se siete uomini, ricorderete Star Wars o Alien solo come due produzioni hollywoodiane di successo planetario. Noi ci trovammo modelli di comportamento, incoraggiamenti ad essere intrepide e reginesche. Ci incitavano nella stessa direzione Patti Smith e Tina Turner ma anche Patty Pravo e Loredana Bertè e persino Gloria Gaynor.

Sì, persino la disco-music dell’epoca – la famosa “musica del disimpegno” – affermava una posizione politica in senso lato ed esaltava l’autodeterminazione: “I Will Survive”, pietra miliare della Dance, è la storia di una lei scaricata dal fidanzato che piange, si dispera, poi si accorge che sta benissimo da sola e quando l’ex si ripresenta lo caccia di casa: «Fai dietrofront, non sei più il benvenuto, cosa credevi che mi accasciassi e morissi aspettandoti?».

A destra come a sinistra, noi ragazze trovammo patrie letterarie su misura del nuovo desiderio di essere padrone non solo di noi stesse, di prenderci quote di potere. Per la destra fu la Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien, per la sinistra la Macondo di Gabriel Garcia Marquez: due luoghi molti diversi, accomunati dalla presenza di femmine speciali – soggetti forti, saldi, combattenti – che sono il fulcro dell’intreccio romanzesco.

Nel Signore degli Anelli c’è Eowyn, la principessa destinata a restare a casa per prendersi cura dei suoi mentre gli uomini vanno in guerra: lei disobbedisce, parte vestita da cavaliere e al culmine della battaglia riuscirà ad abbattere il mostruoso capo degli eserciti nemici. Le ragazze di destra nel 1976 le dedicheranno una rivista scritta da sole donne, aperta da un distico nello stile dei tempi: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada».

Dall’altra parte, Cento Anni di Solitudine incorona la matriarca Ursula Iguaran Buendia, unica fonte di stabilità e saggezza tra maschi persi nei loro sogni rivoluzionari o alchemici, sempre scombinati. Non le intitolano cose, ma il successo di quella cifra magica, irrazionale, fiabesca in un’area politica culturalmente vincolata al realismo e al romanzo sociale dice molto e fa emergere nuove aspirazioni esistenziali.

L’immagine femminile slitta, non più la vigorosa bracciante o operaia del Genotdel ritratta dall’iconografia comunista mentre falcia o guida trattori, ma una donna minuta, apparentemente disarmata, che tuttavia «sostiene l’ordine della specie con irriducibile tenacia mentre gli uomini vanno per il mondo impegnati in tutte le follie che sospingono la storia», come spiegava Marquez.

Con il senno di poi, sarà anche il caso di sfatare il luogo comune che vuole le ragazze di destra dell’epoca succubi del canone maschilista, di ruoli ancillari, mentre a sinistra c’è solo indipendenza, autonomia, vigore.

Due episodi ci raccontano che le cose sono più complicate di come appaiono, perché da entrambe le parti si intrecciano momenti di affermazione femminili e brucianti mortificazioni. Il primo è datato 5 giugno 1977, l’anno fatidico dei movimenti. Il Congresso della principale organizzazione giovanile della destra, il Fronte della Gioventù, si riunisce per eleggere la cinquina di nomi tra cui Giorgio Almirante pescherà il nuovo capo dei giovani.

È un mondo largamente maschile, che coltiva un indubbio machismo negli atteggiamenti e nei pensieri. E tuttavia a sorpresa, al terzo posto, scavalcando anche Gianfranco Fini (che poi sarà il prescelto) si piazza la ventenne Stefania Paternò, una del gruppo di Eowyn: è la dirigente degli universitari di destra a Padova, la culla dell’Autonomia, il posto dove nel ’74 le Br hanno debuttato con l’omicidio dei due dirigenti missini Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. La vota un’assemblea di ragazzi e ragazzini quasi tutti maschi (ci si può iscrivere a 14 anni) stupiti dal suo coraggio e ammaliati dal suo intervento colto e appassionato, diventerà uno dei personaggi più influenti e ammirati di quella generazione.

Per contro, nello stesso anno, a sinistra fa scalpore la rubrica delle lettere del quotidiano Lotta Continua. Ha aperto il 12 marzo ed è stata immediatamente monopolizzata dalle accuse delle lettrici alla figura del “compagno maschilista”, una cosa che ovviamente nessuno si aspettava. Il Collettivo di Bologna addita l’ipocrisia dei maschi per l’8 marzo: «Le donne vengono tollerate solo se la loro lotta si esprime in canti, balli, doni di mimose e folklore».

Le ragazze di Pistoia denunciano gli spintoni presi alla manifestazione del Primo Maggio: «Le compagne sono state insultate, percosse e tirate per i capelli, ci hanno urlato di andare a casa e di pensare di più a cucinare e soddisfare sessualmente i nostri mariti». Ma ci sono anche segnalazioni su fatti personali, come quella delle amiche di un’anonima compagna vessata dal convivente, pure lui di area Lc, che la mena dicendo: «Se vuoi stare in casa mia mi fai chiavare, se no esci».

Ora che tutti si chiedono perché la destra abbia donne in posizione di potere – ministre, cape di partito, capigruppo, presidentesse di cose – e la sinistra no magari sarebbe il caso di rileggere la storia del rapporto tra donne e politica, donne e partiti, donne e scalata sociale, alla luce di un’ipotesi nuova: la possibilità che la retorica dell’empowerment, a parole assai coltivata dalla sinistra e quasi sempre respinta dalla destra abbia in realtà penalizzato le donne dell’area progressista.

Ritanna Armeni lo ha detto benissimo in due frasi: «Le donne di destra combattono molto di più perché nei loro partiti la parità non è dichiarata solennemente in ogni statuto, come succede nei partiti di sinistra. Sanno che nessuno regalerà loro niente e perciò combattono per conquistare il proprio posto, ecco perché ci riescono più spesso che a sinistra».

(Il mio immaginario monologo biografico finisce con le immagini di Fiorello e Amadeus travestiti da Sabrina Salerno e Jo Squillo che cantano “donne oltre le gambe c’è di più”, che è una canzone del 1991, e già allora sembrava un’affermazione in ritardo di un ventennio, ma dieci anni dopo siamo ancora lì, ogni otto marzo, a cantarcela di nuovo).