Molti si sono domandati quali fossero i vantaggi più importanti nell’affidare il Paese al dott. Draghi dopo la tragica esperienza del governo Conte. E l’apparente mancanza di discontinuità in alcuni ministeri e nelle modalità delle chiusure determinate dalla pandemia, nonché l’assenza di comunicazione dopo il profluvio insopportabile delle “conferenza stampa Casalino” in diretta tv nel prime time, hanno già sollevato qualche critica. Ma la differenza nella leadership tra i due personaggi è abissale. E – seppur non sorprendente e anzi assolutamente scontata, vista la storia personale e le premesse – questa differenza è di certo impressionante e foriera di molti sviluppi positivi.
“Leadership” vuol dire capacità di guidare un’organizzazione, un’azienda, un partito, oppure un intero Paese. La differenza sta solo nella dimensione e nell’articolazione dell’organizzazione, laddove lo Stato è enormemente più complesso di un partito o di un’azienda. Ma, alla fine, i principi cardine sono gli stessi e non vengono mai smentiti dal giudizio del tempo.
Per guidare bisogna avere competenza e contenuti. Per un po’ si può fingere di essere competenti, come ha provato a fare Conte, ma, se non lo si è nel profondo per esperienza e capacità commisurate alla complessità dell’organizzazione, il risultato sarà un fallimento, tanto più conclamato quanto più la finzione sarà stata duratura.
Con il tempo emergeranno per quello che sono la pochezza del piano vaccinale, l’assoluta vaghezza nelle comunicazioni (per non dire la propaganda patetica e falsa) e i miliardi di euro di denaro pubblico e di future tasse buttati al vento al solo fine di costruire un’immagine personale. E, con il tempo, apparirà in tutta la sua potenza impossibile da nascondere anche la differenza nei risultati tra un leader competente e uno incompetente. E spesso, per chi lo scopre magari in ritardo, questo risulta difficile da accettare.
Succederà cosi anche con il confronto Draghi/Conte, anche se ci vorrà un po’ di tempo, forse più di quanto ci si possa immaginare, per poter valutare, ad esempio, le differenze di competenza di un Piano nazionale di ripresa e resilienza vero rispetto a uno fasullo e ridicolmente inefficace.
“Leadership” vuol dire passione, che è una parola il cui etimo latino è “soffrire per qualcosa”. “Soffrire” non solo in senso negativo, per un dolore, ma anche in senso positivo, per un’aspirazione o un ideale. Gli ideali di Mario Draghi sono l’Europa e lo sviluppo armonico di una società solidale ma unita, in un contesto globale dove l’Europa non è più solo un obiettivo astratto ma è ormai una necessità assoluta. E, soprattutto, l’ideale di Draghi non è un solidarismo di facciata senza solide basi, ma è la costruzione di una comunità che crea sviluppo e ricchezza e che poi li redistribuisce ordinatamente attraverso regole chiare e condivise.
Questo tipo di passione non prevede il populismo o la demagogia, anzi li aborre, perché queste degenerazioni rendono più difficile l’ottenimento del risultato desiderato, che dipende dalla concretezza dei risultati e non da parole vuote miranti a catturare facile consenso.
Non per questo la passione è algida. Semmai è l’opposto, perché «whatever it takes and, believe me, we can do a lot» è una dichiarazione di guerra – appassionata, forte e determinata – a chi non condivide la passione per questo ideale. E lo stesso accadrà per l’Italia, perché si può fare molto per migliorare la nostra comunità, anche se è molto complicato intervenire sui meccanismi complessi e spesso farraginosi della nostra amministrazione pubblica, rovinata da anni di consociativismo e di mancanza di visione. Le prime azioni sono già un sinonimo del “non fare prigionieri” e della volontà di non fare compromessi se non quando è strettamente necessario. E comunque mai nel caso in cui questi compromessi significassero una rinuncia alla propria passione
Guidare un’organizzazione significa prendersi responsabilità e non dire «me lo ha detto il comitato tecnico-scientifico». Ascoltare tutti, con attenzione, ma poi decidere, ahimè, da soli. La decisione è spesso un atto di enorme difficoltà, perché non sempre le decisioni si rivelano giuste e la responsabilità di una decisione sbagliata ricade solo sul leader.
Il modo più facile per non decidere, e per essere quindi un pessimo leader, è sempre quello di definire un “processo” e quindi alcune regole apparentemente robuste, ma in realtà solo di copertura della propria responsabilità. Così poi si può dire: «Non ho deciso io, ha deciso il “processo” che abbiamo definito insieme». Salvo poi cambiare il “processo” (ricordiamo i colori…) se il risultato non piace.
Il “processo” è impersonale e apparentemente sempre logico. E, soprattutto, esclude l’intuito personale della decisione. Invece un buon leader definisce un “processo”, lo rispetta e lo comunica come tale, ma si prende, in trasparenza con la sua squadra, la responsabilità ultima della decisone, assumendosi anche i rischi dell’errore. E, se è necessario, trascende il “processo”.
Anche sotto la guida di Draghi ci saranno errori, ma non assisteremo piu all’ignobile finzione secondo cui a decidere sarebbero stati “gli esperti”, che a loro volta non prendono decisioni né si fanno carico di responsabilità e hanno una visione del mondo unilaterale, legata al ristrettissimo campo della loro esperienza.
E sono abbastanza certo che, dopo la fase attuale della terza ondata, assisteremo finalmente a un bilanciamento efficace di chiusure e di riaperture, evitando la demagogia e il populismo e soppesando attentamente i costi e gli svantaggi delle chiusure.
Chi ha guidato organizzazioni complesse sa che la solitudine nella decisione è spesso drammatica, cosi come conosce la difficoltà di prendere decisioni impopolari o rischiose invece di imboccare la strada del populismo facile, che raccoglie applausi ma è sbagliato nel medio termine.
È la differenza tra Neville Chamberlain, che non fermò Adolf Hitler quando forse si poteva, e Winston Churchill, che lo ha fermato quando ormai sembrava impossibile a tutti. «We shall never surrender» è una frase storica che resterà per sempre nella vita di noi europei tanto quando il «Whatever it takes» di Draghi. Sono momenti in cui una persona sceglie di essere nel giusto, a costo di essere assolutamente sola, e trascina dietro di sé, con la sua forza e la sua passione, un popolo intero. Poi dopo molto tempo, la storia dimostra che in queste scelte c’erano la visione e il coraggio tipici di un grande leader, senza il quale, forse, le conseguenze sarebbero state tragicamente diverse.
La solitudine del leader ne definisce la capacità e lo standing, perché la visione di lungo periodo spesso contrasta con la spinta verso la strada facile e sbagliata. Questo sarà il vero fardello del nuovo governo: avremo bisogno di scelte impopolari, ma giuste – e, purtroppo, di scelte tanto più impopolari quanto più grandi sono i disastri che ha lasciato in eredità Giuseppe Conte (i vaccini, come primo esempio concreto).
Un buon leader deve essere pronto a dimettersi e a lasciare in ogni momento, avendo per se stesso un futuro del tutto accettabile. Questo non significa essere rinunciatari (semmai l’opposto), ma essere realistici. Se non sussistono più le condizioni per guidare un’organizzazione, dimettersi e lasciare il campo è molto piu nobile di raccattare costruttori vegani alla Ciampolillo per restare attaccati al potere. Un buon leader non è mai attaccato al potere e non usa il potere per perpetuare la propria leadership in senso personalistico ma per guidare: è l’opposto di quello che abbiamo visto negli ultimi due anni (o forse negli ultimi trent’anni?) in Italia.
Comandare non vuol dire urlare «Io sono il capo» e sono il “primo” in diretta tv, autoproclamandosi l’“avvocato degli italiani“. Significa esercitare il potere nei momenti che contano, senza clamore, senza testimoni e anche senza pietà. Il potere significa scegliere la squadra, le strategie, le principali azioni e valutare i risultati. Significa anche fare sapere a tutti che il potere verrà esercitato duramente se necessario, ma non gloriarsi del potere per vanità. Soprattutto significa scegliere tra alternative diverse in modo spesso controverso o non evidente e dichiarare chiaramente che si sceglie una strada perché si pensa che sia meglio della strada opposta.
Un vero leader non può dire «Mai con i 5 Stelle!» e poi «Sempre con i 5 Stelle!», come ha fatto Zingaretti, perché la coerenza con il pensiero e la parola data definirà la fiducia di tutti sulla prossima parola e perché si penserà che, se sei incoerente una volta, lo potrai sempre essere una seconda. Un buon leader, se necessario, paga il prezzo per un errore, ma non cambia la parola data, perché il prezzo dell’incoerenza è sempre superiore al costo di una strada difficile. Proprio per questo il parlare poco e con affermazioni molto ben soppesate è una caratteristica fondamentale per un buon leader.
Infine, la cosa forse più importante è la motivazione per essere un leader. L’unica motivazione accettabile è la fondata convinzione, dimostrata dai risultati, di potere fare bene o molto bene nel proprio lavoro di leadership. Per questo motivo non si può diventare leader senza fare la “gavetta” della leadership. Essere capo è un mestiere e lo si impara, prima in piccoli ambiti, poi in contesti sempre piu grandi, accumulando esperienza, imparando dagli errori e sperimentando le proprie capacità.
Se invece si diventa capi improvvisamente e senza alcuna esperienza (come nel caso di Conte), l’ovvia conseguenza, non appena si sono capiti o provati i grandissimi privilegi di un leader, è cercare di rimanere capo per sempre, solo perché si ha paura di non esserlo piu. È quello che sta succedendo a Conte che si illude di essere leader, mentre è un fantoccio nelle mani di Beppe Grillo (l’unico vero leader dei 5 Stelle). A breve sarà evidente che Conte è solo un ex-finto-leader ormai appassito, che tenta di utilizzarle la sua momentanea e vacua popolarità – che non ha alcun contenuto e che è stata costruita con la propaganda e la passività dei media – per tenere in vita il moribondo (o, più realisticamente, morto) Movimento 5 Stelle. Un vero leader, invece, ha sempre la capacità di lasciare, come accadde a Churchill nel 1945, senza perdere dignità e autorevolezza.
In Italia abbiamo avuto alcuni grandi leader. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, a loro modo, lo sono stati. Con mille difetti, ma certamente hanno avuto una leadership forte. Quello che è mancato a entrambi è stato un ancoraggio solido a un’umiltà di fondo da civil servant, che avrebbe consentito loro di superare il “personaggio” di se stessi e di diventare uno strumento per un obiettivo più grande del culto della propria persona. E quindi entrambi hanno peccato nella costruzione di una squadra che era composta da numerosi servi sciocchi adoranti o, peggio, interessati a privilegi personali immeritati, e da un numero molto limitato di eccellenti collaboratori.
L’altro errore capitale è stata la rappresentazione della persona come l’elemento fondativo di ogni scelta e della leadership stessa. “Il referendum sono io” è stato l’errore chiave nella vita politica di Renzi, cosi come la personalizzazione spinta del ruolo (che arrivava fino all’interesse personale nelle scelte) lo è stato per Berlusconi.
Sergio Marchionne è stato un grandissimo leader, cosi come lo sono stati imprenditori come Leonardo Del Vecchio o Michele Ferrero. E, in altri ambiti, Enrico Berlinguer e ancora prima Alcide De Gasperi e molti altri. Abbiamo avuto, però, anche una serie di comprimari o, peggio, di figurine scialbe legate solo all’occupazione del potere come fonte di vita.
Lo spettacolo del Partito democratico, che non decide tra due scelte entrambe legittime – e cioè la ricreazione della sinistra post comunista massimalista con Massimo D’Alema o la scelta di un alternativa radicalmente diversa di riformismo sociale e liberale che anima alcuni dei suoi componenti – è sintomo di carenza di leadership. Chiedere a Nicola Zingaretti di restare significa non volere sciogliere perché si pensa che la scelta possa rappresentare una perdita di peso personale. Tipico dei Franceschini e degli Orlando che leader non lo sono e non lo saranno mai, ma sono al massimo burocrati di partito che sperano di ottenere un ministero o un incarico in più e che infatti vengono regolarmente sconfitti alle elezioni quando la leadership si misura in voti.
Il futuro del nostro Paese è legato alla presenza di leader veri, autorevoli, competenti e disinteressati nelle istituzioni che per anni sono state occupate da persone che non hanno questo spessore. Purtroppo, i prossimi parlamentari saranno scelti in larga parte dagli apparati di partito, e quindi per le loro appartenenze e non per la loro competenza, perpetuando questa carenza di visione.
Ma, se (come è auspicabile e a mio avviso probabile) il governo Draghi farà bene o molto bene, proprio in quanto guidato da un vero leader, la differenza si vedrà a occhio nudo. E fra due anni, in occasione delle elezioni, i partiti, per sopravvivere, annasperanno alla ricerca di veri e probabilmente nuovi leader o comunque di nuovi protagonisti competenti. C’è chi nei partiti lo ha capito e c’è chi invece non lo ha capito e si dibatte nei meccanismi di sempre, senza accettare che il vecchio giocattolo della politica dei mediocri si è rotto con l’avvento di un vero leader.
L’assenza della propaganda disgustosa a cui ci avevano assuefatto con Rocco Casalino rende la partita aperta, perché il vantaggio del potere è enorme e, com’è noto, il potere logora chi non ce l’ha. Ma, proprio per questo motivo, il nuovo assetto di potere andrà pesantemente a logorare chi non ha contenuti, competenza, passione e capacita di decisone e di responsabilità. E, ma questo è più un auspicio che una previsione, logorerà anche chi fa di se stesso il centro dell’universo nei confronti di chi fa invece dell’istituzione che temporaneamente rappresenta il centro della propria azione.
Tra 2 anni in Italia il modo di interpretare la leadership sarà totalmente diverso da quello, modesto e ripugnante, che abbiamo visto, e purtroppo patito, nelle scelte degli ultimi due anni.