Prima o poi è capitato a tutti di sentirsi dire all’improvviso, con tono tra l’indignato e il contrito: «Ma perché ti fai trattare così?». Anche se spesso amiamo presentarci come persone tutte d’un pezzo, ognuno di noi almeno una volta nella vita si è sentito dire da un amico, da un compagno di partito o da un editorialista sollecito: «Non farti mettere i piedi in testa, fagli vedere chi sei!». Ebbene, se riandate per un attimo con la memoria all’episodio che vi riguarda – d’accordo, a voi non è mai capitato, diciamo all’episodio che ha riguardato il vostro amico immaginario – sono sicuro che ne concluderete con me che, per quanto formulato spesso con le migliori intenzioni, un simile incoraggiamento si è rivelato quasi sempre una fregatura.
Se non avessi timore di perdermi in psicologismi di cui non capisco nulla, direi che a un certo stadio della crescita bisognerebbe raggiungere la consapevolezza del fatto che «chi sei» si vede, sempre, senza bisogno che tu faccia niente. O meglio: chi sei è esattamente ciò che si vede quando non fai niente. Semmai, con un supremo sforzo di volontà, puoi provare a far vedere a qualcuno chi non sei. Ma si tratta di un gioco non facile e che non può essere sostenuto oltre un certo limite, a meno di avere un talento spiccatissimo per questo genere di imposture (e allora non avresti bisogno di incoraggiamenti, e nessuno te ne indirizzerebbe).
Il piccolo incidente che si è verificato nel Partito democratico sui capigruppo, augurandoci che non si trasformi in un tamponamento a catena, sembrerebbe proprio un caso di scuola, da questo punto di vista. Dopo che Enrico Letta li ha pubblicamente invitati a dimettersi, tra gli applausi dei tanti che ogni giorno lo incoraggiano a fare la faccia feroce, la notizia di oggi è che la vicenda minaccia di rivelarsi più lunga e complicata del previsto.
Intendiamoci: nel merito Letta ha pienamente ragione. E non solo per gli ottimi motivi da lui dichiarati, e cioè evitare che l’intera prima linea del Partito democratico sia rappresentata da uomini. Ma anche per una più banale ragione politica, che è al tempo stesso questione di forma e di sostanza. I due capogruppo, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, sono stati eletti all’inizio della legislatura, cioè ben due segretari (Maurizio Martina e Nicola Zingaretti) e due governi fa (Conte I e Conte II). Un gesto di disponibilità verso il nuovo leader sarebbe stato dunque nell’ordine naturale delle cose, e non averlo già annunciato spontaneamente certo non aiuta a migliorare l’immagine del Pd e del suo gruppo dirigente.
Qui però cominciano anche le responsabilità di Letta, perché alimentare la solita pigra lettura del povero segretario ostaggio delle correnti cattive non è nel suo interesse, oltre a non essere nell’interesse del Pd e della sinistra in generale, che da questo modo para-maoista di aizzare militanti ed elettori contro i propri stessi dirigenti è uscita peggio che a pezzi. Anzi, personalmente credo che il Movimento 5 stelle sia nato anche da quella semina, come effetto collaterale e imprevisto della lunga campagna antipolitica e antipartitica che tutti o quasi tutti i leader del centrosinistra hanno cercato di fomentare e cavalcare contro i rivali.
Una strategia che non ha portato bene a nessuno di loro, ma che è addirittura implausibile per una figura come quella di Letta, che tutto può fare meno che il leader para-populista in lotta contro l’establishment. Farebbe bene dunque a guardarsi da consiglieri e commentatori che oggi lo spingono su quella strada, simili al politico che in «Compagni di scuola» invitava Carlo Verdone a portare alla festa la sua nuova giovane fiamma, perché in tal modo avrebbe cancellato per sempre l’antica immagine dello studente imbranato e sfigato, ottenendo finalmente «la riabilitazione del Patata» (sono sicuro che avete capito come andava a finire, nel film e anche nel Pd).
Sarebbe davvero un peccato se Letta cascasse in un simile tranello, anche perché, al contrario del personaggio del film, il neosegretario del Pd non ha bisogno di nessuna riabilitazione, e comunque, appena arrivato, ha già dimostrato tutto quello che aveva da dimostrare: ha nominato una segreteria di prim’ordine senza farsi imporre nomi da nessuno, ha stoppato sul nascere vari tentativi di tenerlo sotto schiaffo in vista delle amministrative, ha ridefinito con abilità la posizione del Pd e del centrosinistra rispetto a Giuseppe Conte e al Movimento 5 stelle, ma anche rispetto al governo Draghi e alla Lega di Matteo Salvini.
Un inizio più che incoraggiante, insomma, che certo non aveva bisogno della frettolosa dichiarazione sul Mattarellum (un minuto dopo essersi fatto votare su un discorso assai più vago su quel punto delicatissimo) e tanto meno di una prova di forza sui gruppi parlamentari, o perlomeno non di una prova di forza fatta in questo modo, con il rischio di innescare un gioco di azione e reazione sui mezzi di comunicazione da cui, comunque vada a finire la partita, rischiano di uscire perdenti tutti.
Alimentare costantemente la rappresentazione del centrosinistra e del Pd come un covo di vipere è stato spesso un modo con cui i leader del passato si sono costruiti un alibi per i loro insuccessi, ma per un segretario appena arrivato quella rappresentazione, anche laddove preveda per lui, come sempre, il ruolo dell’eroe, si risolverà comunque in una perdita secca, perché alla fine dei conti il suo successo dipenderà dai consensi che saprà attirare al Partito democratico. E su questa strada difficilmente ne attirerà molti.