Esportazioni militariDove vanno a finire le armi prodotte in Europa

Negli ultimi anni nell’Unione europea è aumentata soprattutto la quantità di armamenti venduti ai regimi autoritari rispetto a quelli democratici

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Pubblicato originariamente su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

Con l’avvento della presidenza Biden molto sta cambiando sullo scacchiere internazionale. Tra questo, gli importanti rapporti fra Occidente e Arabia Saudita. A gennaio sono stati bloccati 19 miliardi di euro di esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, a oggi attivi nella guerra in Yemen.

Contestualmente, il governo di Washington, dopo iniziali esitazioni, ha reso pubblico un rapporto della CIA che sembra indicare con sicurezza che Mohammed Bin Salman, il principe ereditario Saudita, sia stato il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi – personalità pubblica, oppositore del principe ereditario, e voce apertamente critica del conflitto in Yemen – ucciso e smembrato il 2 ottobre del 2018 presso l’ambasciata saudita a Istanbul.

Tutto questo ha riportato all’interesse dell’opinione pubblica il tema dell’export di armamenti. In cui anche i paesi europei giocano un ruolo da protagonista.

Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), il giro d’affari dell’export bellico mondiale è aumentato notevolmente dal 2000 al 2020.

In questi anni sono stati gli statunitensi a giocare la parte del leone, vendendo 172 miliardi in armamenti, oltre un quarto del totale del giro d’affari mondiale, misurati in trend-indicator value (TIV).

I paesi europei non sono però stati a guardare. Sebbene, presi singolarmente, gli stati europei non possano competere in questo mercato contro il complesso militare-industriale americano, a livello aggregato gli stati dell’Unione più il Regno Unito hanno esportato dal 2000 al 2020 ben 149 miliardi di materiale bellico.

I paesi membri dell’Ue rilasciano dal 2008 i dati sul loro export bellico, con dettagli su tecnologie militari vendute e paesi acquirenti. L’Ong Campaign Against Arms Trade (CAAT) si occupa di sistematizzare e diffondere queste informazioni.

Andando a incrociare i dati dell’export bellico europeo con l’indice di democrazia calcolata dall’Economist Intelligence Unit, è possibile avere un quadro sul tipo di regime a cui vengono vendute le armi, sia esso una democrazia, un regime ibrido, o un regime autoritario.

Distinguere tra tipi di regime non è senza conseguenze: sebbene anche le democrazie partecipino a conflitti, la decisione di un intervento militare è sottoposta a controllo democratico da parte di parlamenti democraticamente eletti. E, nei casi in cui la decisione di un intervento militare possa essere presa unilateralmente dall’esecutivo, al parlamento è dato il compito di valutare dal punto di vista politico l’intervento militare, chiamando i decisori alle loro responsabilità. Lo stesso non vale per i regimi autoritari.

A livello aggregato, nell’Ue, negli ultimi anni è aumentata soprattutto la quantità di armi vendute ai regimi autoritari rispetto a quelli democratici. Vi sono paesi come la Bulgaria che vendono la maggioranza assoluta dei loro armamenti a paesi autoritari, o la Francia, in cui le armi vendute ai regimi autoritari arrivano a toccare quasi la metà del totale.

Si nota anche un’impennata delle esportazioni verso i regimi autoritari nel 2015, anno dello scoppio della guerra in Yemen. Dal 2015 al 2018 infatti sono stati accordati all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti – coinvolti nel conflitto – oltre 15 miliardi in armamenti.

Diverse testimonianze mostrano come gli armamenti europei venduti ai sauditi vengono utilizzati in scenari bellici in cui sono state testimoniate gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, quali immotivate violenze sulla popolazione civile, e raid aerei sempre contro obiettivi civili.

Alla luce delle gravi violazioni del diritto umanitario nel conflitto yemenita – e non solo – occorre chiedersi se sia legale vendere armi a paesi che le utilizzano in questo modo.

La norma europea atta a regolare l’export di armamenti è la Posizione Comune del 2008 del Consiglio europeo. All’interno di questo documento sono enunciati i criteri che vanno a regolare l’export bellico. I paesi membri possono a loro volta adottare criteri più restrittivi nelle loro legislazioni nazionali, ma non più permissivi. La Posizione Comune prevede misure cautelative per impedire che armi europee vengano utilizzate, come dall’Arabia Saudita, in scenari di conflitto con sistematiche violazioni del diritto internazionale umanitario. Ma evidentemente non sono sufficienti. Nel secondo criterio della Posizione Comune la ratio dietro all’export è quella del «rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale e rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di detto paese».

All’interno di questo criterio è esplicitato che la vendita di armamenti non può avvenire «qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna». Oppure che gli stati membri «rifiutino licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale».

La valutazione di cosa costituisca un «rischio evidente», però, è appannaggio dei singoli stati che, pur dovendo esercitare cautela nei confronti dell’export verso paesi che violano i diritti umani, non sono posti di fronte a un vincolo assoluto.

Secondo Sam Perlo-Freeman, Research Coordinator presso il CAAT, questo tipo di formulazione ambigua è assolutamente consapevole. «È concepita per consentire agli stati membri la massima autonomia nel continuare a esportare ai loro maggiori acquirenti, dando al contempo l’impressione che ci siano forti controlli», afferma il ricercatore.

Finora sono serviti a poco gli sforzi del Parlamento europeo, che ha prodotto ben cinque risoluzioni sulla situazione politica e umanitaria in Yemen, oltre ad aver chiesto una decina di volte all’Alto Rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell di avviare un processo che portasse a un embargo verso i sauditi a livello UE.

Inutile è stato anche il tentativo di imporre una legislazione che intensificasse il controllo su queste esportazioni, bocciata nell’autunno 2020 dal Parlamento per 50 voti.

Finché la Posizione Comune non verrà emendata dal Consiglio europeo, quindi, decisioni in merito a un embargo verso i sauditi sono in mano ai singoli governi dei paesi membri dell’Unione, che sulla questione sono politicamente divisi.

Proprio a seguito dello scandalo diplomatico causato dall’assassino di Khashoggi nel 2018 alcuni paesi europei, come la Germania, avevano adottato legislazioni nazionali per mettere di fatto sotto embargo l’Arabia Saudita. Questo ha fatto sì che l’industria produttrice tedesca Rheinmetall dichiarasse di voler fare causa al governo per il danno economico causato dalla decisione dell’esecutivo. L’embargo tedesco ha anche mostrato l’aperta divergenza sulla questione con la Francia, il cui Presidente Macron sosteneva invece che fermare le esportazioni all’Arabia Saudita era pura demagogia.

In Spagna, dal canto suo, il premier Sanchez ha sostenuto in parlamento che, per quanto gli stiano a cuore i diritti umani e il progressismo, la vendita di armamenti all’Arabia Saudita è un importante fattore economico per la crescita e l’occupazione del paese, richiamando l’interesse nazionale spagnolo.

In Italia, varie organizzazioni sostengono che il governo, vendendo armamenti all’Arabia Saudita, stia violando una propria legge nazionale che impedisce al governo italiano di vendere armi a paesi impegnati in sforzi bellici. Nel gennaio 2021 il governo ha però revocato diverse esportazioni ai sauditi e agli Emirati Arabi, compresa una super-commessa da 400 milioni di euro, definita da Giorgio Beretta su Euronews la «più grossa autorizzazione per l’esportazione di bombe mai rilasciata dai tempi del dopoguerra».

Il Regno Unito, dopo uno stop temporaneo, ha deciso nel 2020 di riprendere l’export verso i sauditi considerando le violazioni del diritto umanitario come qualcosa di non sistematico ma “casi isolati”. Nel febbraio di quest’anno, dopo aver declinato l’invito a seguire la decisione di Washington e fermare le esportazioni, Londra ha autorizzato esportazioni belliche verso l’Arabia Saudita per 1.4 miliardi di sterline

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