È difficile trovare un tratto comune, un carattere, ai popoli. Però sugli italiani si può dire una cosa: siamo abituati a lavorare bene con poche risorse facendo affidamento sulle nostre capacità individuali piuttosto che sul sistema Paese. Questo è vero in molti campi, nella diplomazia in modo particolare.
«L’Italia è una grande potenza culturale ed economica» ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo primo discorso al Parlamento. Una formula un po’ retorica, ma non per questo sbagliata: il problema è che alla consapevolezza non segue un eguale attenzione ai mezzi necessari per sostenere questo status.
L’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso il 22 febbraio scorso in un agguato nella Repubblica Democratica del Congo, era l’unico diplomatico italiano nella sede di Kinshasa. Quando l’ambasciatore è solo, riassume in sé tutti i compiti normalmente suddivisi tra le varie figure presenti nelle sedi diplomatiche: dai contatti politici al più alto livello con le autorità locali, all’assistenza ai connazionali (circa 1.200 in RDC), alla tutela e la sicurezza del personale nei luoghi di lavoro, per arrivare fino alle attività amministrativo-contabili (con annesse responsabilità civili e penali).
Il suo non è un caso isolato. Nel mondo un’ambasciata italiana su quattro ha un solo diplomatico in organico, la metà conta soltanto due funzionari. Se da un lato la rete diplomatica italiana è tra le più grandi, terza in Europa dopo Francia e Germania, le risorse non sono all’altezza dei bisogni e delle ambizioni.
Mancano soldi e personale per farle funzionare: «L’Italia è un Paese esportatore, diciamo che anche noi diplomatici ci adattiamo a questa vocazione, seppure in modo diverso: esportiamo la nostra capacità di arrangiarci, e proviamo molta invidia rispetto alle risorse di cui dispongono gli altri europei», spiega un diplomatico in servizio in una sede che in gergo viene definita «molto disagiata».
Questo non vuol dire che i nostri diplomatici siano soli e abbandonati o messi in condizioni proibitive. Vuol dire che l’attenzione sul budget disponibile è minore di quanto servirebbe: «Il tema delle risorse esiste, impossibile negarlo, ma questo non ci impedisce di svolgere un’attività cruciale nei Paesi in cui operiamo. Posso dire, per esperienza, che se avessi avuto più mezzi la mia azione diplomatica sarebbe stata ancora più incisiva ed efficace, ma allo stesso tempo il nostro personale è preparatissimo e quindi spesso riesce a supplire a queste mancanze in altro modo», spiega Maurizio Melani, ex ambasciatore a Baghdad e ad Addis Abeba e al Comitato politico e di sicurezza dell’Unione europea.
Negli ultimi anni il numero degli italiani all’estero è aumentato (+4,7 per cento nel 2020), le necessità delle imprese che esportano sono più complesse e necessitano di maggiore attenzione dagli addetti commerciali delle ambasciate, ma le risorse della Farnesina continuano a calare.
Viviamo al di sopra delle nostre possibilità? L’Italia ha 128 ambasciate, 80 consolati e 84 istituti di cultura. Numeri vicini a quelli di Francia e Germania. I dipendenti della Farnesina sono 3.554 suddivisi tra diplomatici e funzionari (a cui si aggiungono i contrattisti locali). Sembrano molti, ma non è così: in primo luogo negli ultimi dieci anni questo numero è diminuito del 20 per cento e soprattutto è infinitamente minore rispetto alle potenze alleate.
La Spagna, che ha un numero di uffici comparabile al nostro, può contare su duemila persone in più. Per non parlare di Germania (6.435 totali) e Francia (8.674). D’altronde, il budget italiano è sempre più risicato. Oggi la nostra spesa per gli Esteri rappresenta lo 0,09 per cento del Pil. Vent’anni fa il bilancio della Farnesina era pari allo 0,28 per cento. Intanto la Germania spende lo 0,17 e Paesi Bassi lo 0,19.
In termini assoluti, il paragone è ancora più duro: il bilancio della Farnesina è di circa 1,6 miliardi di euro, quello del Quai d’Orsay francese è di 2,7 miliardi, mentre il Wilhelmstraße, il ministero degli Esteri tedesco, può contare su 5,9 miliardi.
Parte del lavoro della rete diplomatica, in particolare degli uffici consolari, è dare assistenza agli italiani che si trovano all’estero per motivi di lavoro, turismo o studio, o che sono iscritti all’Aire, e quindi hanno la propria residenza in un Paese diverso dall’Italia. Anche qui, la quantità di risorse è inversamente proporzionale alla quantità di lavoro: gli italiani iscritti all’Aire sono più di 5 milioni, quelli iscritti al registro dei francesi all’estero 1,6 milioni, anche se la Francia stima il numero di francesi residenti di fatto all’estero in 2,5 milioni.
A questo si aggiunge l’enorme mole di visti per turismo, affari, studio, lavoro, e l’esigenza piuttosto delicata di conciliare l’importanza che i viaggi in Italia hanno per la nostra economia con quella del controllo dei flussi migratori. «Oggi nelle nostre sedi all’estero si lavora con la frustrazione di non poter fare quanto si vorrebbe, d’altronde il personale e i mezzi sono ridotti all’osso», dice Francesco Saverio De Luigi, diplomatico classe 1959 col grado di ministro plenipotenziario, e presidente del SNDMAE, il sindacato nazionale dei dipendenti della Farnesina.
È una questione di ristrettezze di bilancio, ma molto probabilmente anche di cultura, che sia politica, mediatica, popolare: di esteri in Italia si discute poco e male, i grandi giornali hanno molto ridotto la loro presenza in giro per il mondo, così come le televisioni e le radio.
Tutto questo ha un suo peso, spiega De Luigi: «Il sistema italiano è sempre più ombelicale e ripiegato su se stesso, da tempo manca una visione strategica. Non si può pensare di fare riforme a costo zero, o si investe seriamente nella nostra rete o si ridimensiona il numero delle ambasciate».
Anche perché la tendenza degli ultimi anni è chiara: la Farnesina ha non soltanto provato a tenere inalterata la presenza italiana nel mondo, ma ha anche lavorato per aumentarla. In Africa subsahariana negli ultimi anni sono state aperte numerose ambasciate, come a Ouagadougou, in Burkina Faso, a Niamey, in Niger, a Conakry, in Guinea, oltre a un inviato speciale che ha sede a N’Djamena, in Ciad.
Il problema è che tutto non si può fare, e quindi questo ha un impatto sul personale, esiguo rispetto ai partner internazionali. La nostra ambasciata più grande è a Washington, negli Stati Uniti: lì abbiamo 15 diplomatici. I francesi sono 45, i tedeschi 52, gli olandesi 23. A Pechino la situazione è simile: a fronte di 10 funzionari italiani, ce ne sono 30 francesi e 51 tedeschi.
A Bruxelles, dove ha sede la rappresentanza permanente presso l’Unione europea, l’Italia ha inviato la metà dei funzionari spagnoli. «Un presidio in quella sede ha un peso politico fondamentale, lì si gestiscono i fondi comunitari e si decidono questioni cruciali per il nostro Paese», ricorda De Luigi.
La presenza istituzionale all’estero è strategica per diversi motivi: l’assistenza ai connazionali, i rapporti politici, la cooperazione. Poi c’è l’aspetto più importante, almeno negli ultimi anni: quello economico e commerciale del supporto alle imprese, che ha ricevuto moltissime risorse grazie al trasferimento dell’Agenzia Ice e di Sace-Simest, il polo dell’export e dell’internazionalizzazione di Cassa depositi e prestiti che si occupa di assicurazioni.
La cosiddetta internazionalizzazione. «La nostra economia dipende in larga parte dalle esportazioni», spiega De Luigi. «In Germania e in Francia il 50 per cento dell’export è rappresentato da 50 grandi imprese. In Italia, per raggiungere quella percentuale, servono mille aziende. Ci sono tante pmi che non hanno possibilità di fare diplomazia “in proprio”, come accade per le multinazionali. Nel nostro caso le richieste di aiuto sono molte e articolate. Avere una diplomazia forte è fondamentale per sostenere queste realtà».
Secondo i dati di Prometeia, citati da un rapporto di Unioncamere Veneto e Cgia di Mestre, nel 2016 il sostegno pubblico fornito dalla rete diplomatica ha portato in Italia 21 miliardi di euro di valore aggiunto, sostenendo 230mila occupati e generando entrate fiscali per 7 miliardi.
Il nostro ministero degli Esteri è un “moltiplicatore”: ogni euro di spesa pubblica ha contribuito, insieme alle imprese, a generarne 20 di crescita all’Italia. Ma anche in questo ambito, servirebbero più risorse per accompagnare le imprese, soprattutto in ambienti più difficili da penetrare, come l’Africa o l’Asia.
In Indonesia, una delle principali economie emergenti dell’Asia in cui nel 2018 abbiamo esportato beni per 1,6 miliardi di dollari, abbiamo 3 diplomatici contro i 9 francesi, i 13 olandesi e i 21 tedeschi. Situazione simile in Corea, ma anche in Svezia o in Colombia.
La Farnesina ha appena assunto 32 nuovi segretari di legazione, il grado base della carriera diplomatica, e ha da poco bandito un concorso per 375 dipendenti amministrativi, incaricati di affiancare il personale diplomatico. Non è un’inversione di tendenza, perché di queste figure professionali il ministero aveva disperatamente bisogno, ma è forse una base su cui ripartire.
Anche la diplomazia ha bisogno del suo Next generation plan.