Lunedì mattina, nei pressi del villaggio di Kanyamahoro, pochi chilometri a nord del capoluogo Goma e vicino al confine con il Rwanda, sette uomini armati hanno ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere che lo scortava, Vittorio Iacovacci, e il loro autista Mustapha Milambo.
Domenica Attanasio aveva avuto un incontro con tutti gli italiani che lavorano nella regione, missionari, Ong, funzionari dell’Onu e del World Food Programme. «Quella di ieri era la visita annuale», racconta Miriam Ruscio, attivista di AVSI, una della Ong che proprio a Goma porta avanti le sue attività, «anche l’anno scorso l’ambasciatore era venuto qui a febbraio, sempre per incontrarci e monitorare le attività che vengono svolte in questa zona».
Dopo l’incontro era prevista una visita a una scuola organizzata dal World Food Programme, il programma delle Nazioni Unite che aveva messo a disposizione della delegazione italiana due veicoli. «Tutta questa zona è pericolosa – spiega ancora Miriam Ruscio – il parco del Virunga, nonostante sia patrimonio dell’Unesco, è spesso scenario di attacchi. Il convoglio non era su una delle vie sterrate che costeggiano il parco ma era su una strada principale che va verso il territorio di Rukoko».
La ricostruzione dell’omicidio è ancora in corso ma diverse fonti diplomatiche spiegano a Linkiesta che l’obiettivo non fosse uccidere l’ambasciatore, quanto rapirlo. Dopo aver colpito l’autista, che è morto sul colpo, un commando di sette uomini ha preso con sé Attanasio, Iacovacci e altre tre persone e ha provato a portarli nella foresta poco distante.
A quel punto i ranger del parco, allertati dagli spari, hanno inseguito i rapitori; ne è scaturito uno scontro a fuoco che ha messo in fuga gli attentatori, ma nel quale probabilmente sono rimasti feriti Attanasio e Iacovacci, poi deceduti in ospedale.
È il paradosso di questa storia, perché un rapimento avrebbe permesso di negoziare con i criminali locali, e di ottenere infine la liberazione dei due italiani. In ogni caso, è ancora presto per identificare gli aggressori: «Siamo molto cauti in questo momento, aspettiamo di avere i nostri funzionari sul terreno prima di trarre delle conclusioni e fare dichiarazioni ufficiali su quello che è successo», spiegano dalla Farnesina.
In un comunicato ufficiale, il ministero dell’Interno della Repubblica democratica del Congo ha scritto che l’attacco è stato condotto dalle Forze democratiche di liberazione del Rwanda, un gruppo legato al genocidio rwandese del 1994 e che opera a cavallo del confine poco distante. Il corrispondente di France 24 nel paese, Clément Bonnerot, riporta però che queste milizie hanno smentito qualunque coinvolgimento. Ieri la Stampa ipotizzava una possibile responsabilità dell’Isis, ma il loro attacco più vicino è avvenuto a più di cento chilometri di distanza dalla strada percorsa dal convoglio.
Inutile lanciarsi in ipotesi prima delle indagini, a cui parteciperanno gli agenti del Ros, inviati oggi a Kinshasa dalla procura di Roma, competente per l’omicidio degli italiani all’estero, e dei servizi, inviati dalla presidenza del Consiglio. Alcuni dettagli andranno chiariti: l’ambasciatore era senza scorta a parte la sua guardia del corpo personale, e in un veicolo non blindato, come dimostrano le foto della sua auto, ritrovata con un finestrino infranto.
Lunedì mattina il World Food Programme ha chiarito in un comunicato che la strada su cui viaggiava il convoglio era considerata sicura «per i viaggi senza scorta».
Il punto è quindi capire se si è trattato di un incidente imprevedibile oppure evitabile con una scorta più corposa. Secondo gli attivisti italiani che operano in quella regione, l’episodio non è affatto una novità: «In quella zona spesso ci sono stati rapimenti per poi chiedere i riscatti», spiega Miriam Ruscio. Il ministero degli Esteri ha chiesto alle Nazioni unite di condividere tutte le informazioni disponibili per far luce su quanto accaduto.
Secondo il Groupe d’études sur le Congo la zona è presidiata da 122 gruppi armati (qui le mappe pubblicate su Twitter), a dimostrazione dello scarso controllo del territorio da parte delle autorità statali, incapaci di garantire la sicurezza.
Onesphore Sematumba, analista del Crisis Group specializzato negli affari interni del Congo, ha scritto su Twitter che «l’assassinio del diplomatico italiano e dei suoi compagni da parte di uomini armati non lontano da Goma segue una lunga serie di omicidi poco mediatici, segno della disintegrazione dello Stato. Il potere di Kinshasa dovrebbe mostrarsi più preoccupato da questa situazione».
Non si conosce ancora la data dei funerali ma, secondo quanto risulta a Linkiesta, l’Italia ha ottenuto il rilascio immediato delle salme; la procura di Roma potrebbe quindi decidere di procedere all’autopsia dei corpi ed evitare che venga fatta dalle autorità locali.
«Luca Attanasio era una persona molto vicina alla gente – racconta ancora Miriam Ruscio – non era ciò che forse uno si aspetta da un ambasciatore, era molto raggiungibile, e capiva il paese perché lo viveva da cittadino. Durante la prima fase della pandemia ha velocemente avviato i rimpatri non solo per il personale italiano, ma anche per tutti gli altri: è diventato in breve termine un modello di gestione dell’emergenza anche per le altre ambasciate. Anche di questo abbiamo parlato domenica».
Attanasio era il solo diplomatico italiano presente nel paese, e quindi riassumeva in sé tutti i compiti dell’ambasciata: dai contatti politici al più alto livello con le autorità locali, all’assistenza ai connazionali (circa 1200), alla tutela e la sicurezza del personale nei luoghi di lavoro, per arrivare fino alle attività amministrativo-contabili (con annesse responsabilità civile e penale).
Insomma, un compito molto diverso rispetto ad altre sedi: più terreno, più incontri con le comunità locali, meno rappresentanza. «Andare in quelle sedi è quasi come fare il missionario, anche perché purtroppo non è che paga più di tanto in termini di carriera», spiega un collega.
Ha contribuito Bianca Senatore