Chi poteva immaginare che un giorno avrei riposto le mie speranze, la mia salute, la mia vita stessa nelle mani di un generale degli alpini? Un militare, e per giunta sempre in divisa, con tanto di penna sul cappello? Proprio io, che le divise le ho sempre detestate e che da giovane liberale e radicale andavo alle manifestazioni antimilitariste di Marco Pannella e Roberto Cicciomessere? Allora i militari, per noi, erano i colonnelli greci, gli Augusto Pinochet, o i Giovanni De Lorenzo o i Junio Valerio Borghese che avevano cercato di fare la stessa cosa in Italia. Biechi reazionari alla Fiorenzo Bava Beccaris, pronti ad aprire il fuoco sugli operai. Una manica di fascisti che tramavano contro la democrazia. Si parlava di golpe un giorno sì e l’altro pure, a quei tempi, e i compagni dell’ultrasinistra andavano a sciare a Clavière per portarsi avanti e, nel caso, chiedere asilo alla Francia.
Partii per la leva un anno prima che approvassero la legge sull’obiezione di coscienza. Giusto mezzo secolo fa. Mi spedirono al Car (Centro addestramento reclute) di Cassino, ai piedi dell’Abbazia. Nello zaino nascondevo alcuni testi incendiari pubblicati, ovviamente, da Einaudi. E nella testa la convinzione, instillata da Piero Gobetti, che la caserma fosse «l’antitesi del pensiero». Me lo confermarono subito gli obblighi ridicoli e i rituali insensati, le adunate all’alba per poi non fare quasi nulla tutto il giorno, il cubo con le coperte sopra la branda, i gavettoni notturni in camerata. Ma soprattutto il capitano che al primo alzabandiera ci arringò con queste poche ma sentite parole: «Ci sono tre categorie di persone che io non sopporto: gli sporcaccioni, i froci e i comunisti». Non so quanti dei miei commilitoni appartenessero alle prime due categorie, ma di comunisti (in senso lato) ce n’era un fottio. Tipo quel milanese di Lotta Continua, anzi di “Proletari in divisa” come si chiamavano, che quando una sera ci vietarono, chissà perché, la libera uscita, guidò un vero e proprio ammutinamento: «Plotone avanti, marsc!», e noi come un sol uomo, a passo di carica fuori dai cancelli.
Cinquant’anni dopo tutto è cambiato, e neppure i militari, per fortuna, sono più gli stessi. Almeno in Italia. Tanto che comincio a sospettare che “l’antitesi del pensiero” vada cercata piuttosto negli uffici dei ministeri e del parastato, o nei palazzi delle Regioni, e che tra i ranghi dell’esercito ci siano professionisti più competenti (e anche più rispettosi dell’etica e della legalità) di tanti manager che accumulano incarichi sfasciando aziende e sperperando denaro pubblico.
Può ancora capitare qualche episodio che avvalora l’intuizione gobettiana. Per esempio quando la Marina militare apre un’indagine sui cadetti che dopo il giuramento si mettono a ballare Jerusalema, e in particolare sulla tenente di vascello che ha lanciato l’idea «per rinfrancare lo spirito delle reclute» stressate dalla restrizioni della pandemia. Ballare in divisa, ohibò, quale vulnus all’onorabilità e al decoro delle forze armate.
Ma a parte casi isolati, i militari non mi fanno più orrore come un tempo, semmai mi rassicurano. Anche se molti, a sinistra e non solo, vedono nella penna bianca del Generale Figliuolo il vessillo di una militarizzazione della politica, pilotata dalla solita cupola finanziaria euromondialista, a me invece fa venir voglia di arruolarmi con lui, e di correre in caserma per il vaccino.
Più che le stellette, in questa fase a me allarmano le stelle, quando sono in fila per cinque. E le spille di Alberto da Giussano sul bavero dei ministri Giorgetti e Garavaglia. Quelle sì, sono un messaggio inquietante. Un emblema identitario che strizza l’occhio al popolo di Pontida, all’esercito delle doppiette padane più volte evocate dal vecchio Umberto Bossi, a quei barbari che a suo tempo Giorgio Bocca aveva salutato come “nuovi partigiani” e che ancora oggi tengono malamente a freno i loro istinti antigovernativi.
Ammicca, soprattutto, alla platea delle partite Iva, dei ristoratori e dei baristi stremati da un anno di lockdown. A loro il condottiero medievale sembra voler dire: «Guardate che per ora stiamo buoni al governo, ma siamo sempre pronti a sguainare la spada e a infilzare Draghi se non vi fa riaprire dopo Pasqua. O se non vi dà la pace fiscale eterna. O se toglie quota cento alle pensioni». Perché noi siamo diversi: anche se adesso vestiamo (o ci travestiamo) all’europea, in fondo al cuore restiamo dei guerriglieri.
Alla faccia dell’unità nazionale. Ma ve lo immaginate Speranza che va al consiglio dei ministri o in televisione col fazzoletto rosso al collo e il berretto di Lenin? I politici americani, che siano Democratici o Repubblicani, sulla giacca si appuntano solo la bandierina a stelle e strisce. Perché i ministri della Lega restano così attaccati a un simbolo divisivo, come se fosse una Croce al merito? Un simbolo militaresco, per di più. Eppure nessuno di loro, a differenza del generale Figliuolo, ha mai comandato delle truppe in Afghanistan o in Kosovo. E il loro eroe è un personaggio della fiction, gli storici sostengono che in realtà non sia mai esistito. Viva gli alpini, abbasso Alberto da Giussano.