Si chiama “The Hiring Chain” il brano cantato da Sting in occasione della Giornata mondiale della sindrome di Down del 21 marzo. L’iniziativa, lanciata da CoorDown, nasce per sensibilizzare i datori di lavoro e affermare che assumere una persona con sindrome di Down cambia la vita non solo al diretto interessato, ma può innescare un circolo virtuoso di nuove opportunità per tutti.
Lo dimostra l’esperienza del Gruppo Adecco, che ormai da anni ha nel proprio organico tre persone con sindrome di Down e che ogni giorno fa da tramite con le aziende per le nuove assunzioni di ragazzi e ragazze che attraverso un’occupazione raggiungono così la piena autonomia personale ed economica.
«Il lavoro resta uno dei principali canali di inclusione sociale», conferma Claudio Soldà, Csr & Public Affairs Director del Gruppo Adecco. Il gruppo da marzo 2020 ha permesso l’assunzione di oltre un migliaio di persone tutelate dalla legge 68 del 1999 nelle aziende clienti. «La nostra mission è rendere il mondo del lavoro accessibile a tutti. Più discriminazioni si adottano, meno includi e più riduci la potenziale platea di candidati», dice Soldà.
Oggi in Italia ci sono 48mila persone con sindrome di Down, ma solo il 31,4% di chi ha più di 24 anni ha un lavoro e un contratto regolare. Di questi, la maggioranza (il 60%) non è inquadrata con contratti di lavoro standard. E in oltre il 70% dei casi queste persone non ricevono nessun compenso o percepiscono uno stipendio inferiore alla normale retribuzione per il lavoro che svolgono.
Adecco risponde alle esigenze delle aziende di mettersi in regola con gli obblighi previsti dalla legge 68 del 1999, che riserva il 7% dei posti alle persone con disabilità nelle aziende sopra i 50 dipendenti. Ma realizza anche progetti specifici di inserimento nelle aziende, attraverso la Fondazione Adecco per le pari opportunità, in collaborazione con l’Associazione genitori persone Down (Agpd) e l’Associazione italiana persone Down (Aipd).
«Nei progetti di inserimento lavorativo», spiega Soldà, «si lavora in partnership: oltre a noi e all’azienda, c’è sempre l’associazione che segue la persona con sindrome di Down e che conosce competenze, capacità e livelli di autonomia».
Il percorso di inserimento in azienda è sempre personalizzato, graduale e per step. «Nel momento in cui l’associazione ritiene che ci siano ragazzi pronti per il mondo del lavoro, con loro capiamo che livello di autonomia hanno raggiunto e come procedere per l’inserimento in azienda passo dopo passo», racconta Laura Ciardiello, Responsabile sviluppo progetti della Fondazione Adecco per le pari opportunità. «È importante capire come raggiungeranno il posto di lavoro, che autonomia hanno su determinate mansioni e cosa sanno fare. Con questi ragazzi facciamo incontri individuali e costruiamo il percorso».
Un percorso di inclusione di persone con sindrome di Down di successo è quello che Adecco ha realizzato con l’inserimento di Bartolomeo, Carlotta e Marta, avvenuto negli uffici di Milano e Roma: 38 anni lui, 37 le ragazze, assunti nel 2006, 2007 e 2010. Oggi sono pienamente integrati nel dipartimento che si occupa dei Servizi Generali.
«Per organizzare l’ingresso di “Bart”, Carlotta e Marta, abbiamo pianificato un’inclusione graduale accompagnata da una serie di incontri con l’associazione e i ragazzi, che allora erano poco più che ventenni», spiega Ciardiello. «Abbiamo chiesto loro cosa volessero fare e ci hanno risposto che era importante continuare a relazionarsi con le persone. Così abbiamo studiato una mansione che potesse aiutare e alleggerire il lavoro quotidiano dei colleghi, che avevano bisogno di qualcuno che distribuisse la posta interna e andasse agli uffici postali a fare le commissioni».
Così si è partiti con i primi incontri con i colleghi che avrebbero collaborato maggiormente con loro. Dopo qualche intoppo iniziale, per Bartolomeo, Carlotta e Marta è stata stilata un’agenda con le mansioni specifiche, i percorsi tra gli uffici, i tempi in cui svolgere le attività. Il percorso è stato graduale, con tempi e modalità differenti. Prima si è proceduto con un giorno a settimana in azienda, accompagnati da un tutor messo a disposizione dall’associazione. Finché i giorni di lavoro sono aumentati e l’affiancamento del tutor non è più servito. E dopo un anno di tirocinio, è arrivato il contratto a tempo indeterminato. «È stata una festa per tutti noi», dice la responsabile.
Oggi, dice Soldà, «sono tre colleghi indispensabili in azienda che dimostrano che non c’è alcuna necessità di parlare di diversità. È stato un beneficio per il loro percorso di autonomia, ma anche e soprattutto un grande beneficio per l’azienda».
Bart, Carlotta e Marta oggi vanno in ufficio da soli con i mezzi pubblici e lavorano in totale autonomia, partecipano ai kick-off aziendali, ai corsi di aggiornamento e formazione. Proprio come tutti gli altri colleghi. «Questa esperienza interna ci ha aiutato a conoscere meglio le modalità con le quali agire e a spalancare quindi le porte anche in tante altre aziende», dice Ciardiello.
«Il principio su cui bisogna basarsi è quello di separare la persona dalla disabilità», ribadisce Soldà. «Significa che prima guardo la persona e poi tra le varie cose anche la disabilità. Nel momento in cui parti dalla valutazione di un curriculum con la cornice della disabilità, lo leggi in forma viziata. Se ad esempio leggi il cv “mascherato” di Bartolomeo come persona che come esperienza di lavoro ha la gestione della posta interna, diresti che è un profilo che si occupa di servizi generali. Se invece leggi il cv “non mascherato” e c’è scritto “persona iscritta al collocamento mirato” ribalti completamente la valutazione, focalizzandoti sulla disabilità».
Questo è il salto culturale da fare. Che poi è quello indicato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2000, sostituendo i concetti obsoleti di “menomazione”, “disabilità” e “handicap” con quelli di “funzione”, “attività” e “partecipazione”, ha posto il focus sul condizionamento dato dalla società esterna e non sul problema di salute della persona. «Significa», conclude Soldà, «che se riduciamo le barriere architettoniche e i pregiudizi che abbiamo, la partecipazione sociale, di tutti, risulterà massima. Come per Bartolomeo, Carlotta e Marta».