Nessuna presentazione di Alessandro Gori conosciuto da molti come “Lo Sgargabonzi” (il nome della sua pagina Facebook) può prescindere dalla definizione che ne ha dato uno dei principali critici letterari italiani, Claudio Giunta, su Internazionale: “il migliore scrittore comico italiano”. Gori che, negli ultimi mesi, si è fatto conoscere meglio anche dal pubblico di “Una pezza di Lundini” a cui ha collaborato con le sue schede, ha un’abilità strabiliante nell’individuare la retorica vuota così come nel riconoscere e mostrarci i cliché o i tic della lingua, le formule abusate e le frasi fatte. E, tuttavia, resta in un limbo in cui non è considerato propriamente uno scrittore tra gli scrittori, né un autore comico tra i comici – muovendosi in ambiti culturali che ragionano ancora per compartimenti stagni.
Penso tu sia innanzitutto uno scrittore, ma volevo chiedere a te come ti definiresti.
Non ho troppa ansia di definirmi. Pure la malattia di Creutzfeldt-Jacob viene diagnosticata con certezza solo post-mortem. Penso di avere una creatività e che questa sia confluita nella scrittura, ma non perché io ami scrivere. A dire il vero non lo amo affatto, altrimenti sarei sempre a farlo e invece non ne ho mai voglia. Amo però il risultato finale, il diorama che ne viene. Per dire: pur essendo appassionato di cinema non ho mai sognato di fare il regista. Puoi avere mille film in mente ed è probabile che passerai la vita a fantasticarli senza poterli mai realizzare. Se invece il tuo kolossal alla Cecil B. DeMille lo vuoi scrivere, ti basta un computer per farlo. E lo farai senza compromessi, senza zavorre e forza di gravità, potrai modellare tutto a tuo piacimento e lo potrai perfezionare nel tempo, esattamente come se allestissi il tuo diorama perfetto. In questo, la libertà che ti offre la scrittura è impareggiabile. Male che vada non ti pubblicano o ti pubblichi da solo, che con la media di esperienze che ho avuto io con gli editori sarebbe addirittura auspicabile.
Cosa hanno avuto di così tremendo?
Niente di tremendo. Ma ad oggi nemmeno niente di esaltante o che mi abbia fatto dire “ne valeva la pena”. Oggi, se ho un libro pronto ed è di kubrickiana perfezione, preferisco pubblicarlo subito per gli affari miei, senza dover star dietro a tempi, modalità, chiacchiere, caffè in cialda, percorsi emozionali, promesse tonitruanti puntualmente disattese, contratti, bracci di ferro, cessioni di diritti secolari, attese infinite, eterni giochi al ribasso e dissolvenze nel disinteresse tipiche degli editori e che alla lunga hanno finito per snervarmi. Ho una vita sola e tutto questo pur legittimo pacchetto, questo lentissimo ma sferragliante pachiderma cingolato ha finito per togliermi un po’ l’entusiasmo e la voglia di scrivere.
Adesso però curerai una collana per Visiogeist. Sarà diverso?
Curare una collana di libri non miei mi stimola molto e voglio farlo in maniera proattiva, ovvero scovando io stesso bravi scrittori umoristici dove non penseresti di trovarli, in chi magari non ha mai neanche minimamente pensato di produrre niente del genere. Tipo Pupi Avati quando fa interpretare ruoli drammatici ad attori comici. Penso di avere un buon fiuto per vedere oltre l’ovvio.
Niccolò Re, giornalista spezzino che ha aperto la collana, è uno a cui di far ridere importa poco o niente. Ed è una delle persone più divertenti, fantasiose e morbose che io conosca. Che non scrivesse un libro di racconti mi era inconcepibile e quindi, in questo ruolo, ho potuto imporglielo in malo modo prendendolo per il cravattino. E avevo ragione: “Rammaricandoci per la bellezza della sposa” è un libro-mondo spettacolare e che, purtroppo, gli invidio nottetempo. Adesso sto lavorando sul secondo volume, un’antologia tematica firmata da un collettivo letale che sto agghindando io, nome per nome, come fosse un presepe.
Che tipo di lavoro fai per farci vedere allo specchio tutti le frasi fatte e i cliché della lingua che usiamo?
Nessun lavoro. Non mi documento, non seguo pagine, non sono aggiornato sull’attualità, anche se ho saputo di questo fatto delle vuvuzela e ovviamente dispiace. Mi rapporto a quello che mi arriva, sfocando gli occhi per vederlo meno definito possibile. Meno ne so di qualcosa meglio è. Mi piace che i miei racconti che qualcuno classificherebbe come comici sembrino in realtà scritti da un marziano che tenta di mimetizzarsi fra gli umani e scrivere come scriverebbero loro, ma si capisce che c’è qualcosa che non va: un ritardo, una scarsa lucidità, un’azotemia alta, una cronica mancanza di queste folkloristiche “punchline”. Nel mio ultimo libro, “Jocelyn Uccide Ancora”, c’è un racconto dal titolo “Cronache di ordinaria normalità al Salone del Libro”. Beh, credo di non aver letto un rigo di nessuno degli scrittori che metto in scena. Mi faccio ispirare dalle facce o dall’onda lunga delle chiacchiere su di loro, cercando di non assecondare mai nessun automatismo, ma di essere sempre laterale, deludente e fuori fuoco.
Il bersaglio della tua scrittura è spesso anche la retorica vuota. C’è qualcosa che non ti sembra retorico?
Certo, un sacco di cose. Tutte le astrazioni, per esempio, che siano i primi quattro album di Mike Oldfield o i dipinti di Marco Pace, per arrivare al gioco di società, dal Senet degli antichi egizi ai capolavori moderni di Reiner Knizia. Nelle meccaniche che li fanno girare, nella concentrazione ieratica che essi richiedono, c’è il tentativo più alto dell’Uomo di chiudere il mondo fuori e allontanare l’ansia della fine.
Hai mai provato a scrivere per attori comici? È una cosa che faresti?
Negli anni mi è stato chiesto di fare l’autore per altri comici o per programmi televisivi, ma ho sempre declinato. Non mi piacerebbe farlo, almeno non nel senso classico, non ne sarei proprio motivato. Probabilmente nemmeno lo saprei fare perché non sono affatto una persona versatile, ho sempre cercato di adattare il mondo a me più che il contrario. Le mie sporadiche apparizioni in tv sono sempre state quando ho potuto portare qualcosa di mio. Mi togli dalle tre cosette in croce che so fare e torno a essere un redneck della Val di Chiana dagli agghiaccianti precedenti penali tra cui il furto di un recinto. Inoltre non mi trasferirei mai per lavoro dal paesino in cui sono nato e in cui, se permetti, vorrei un attimino morire.
In molti ti riconoscono un grande talento. Ma per i talenti del tuo genere ci sono sempre meno spazi a disposizione. Come vivi?
Per adesso sono stato abbastanza fortunato. C’è stato un passaparola che ha fatto sì che bene o male mi abbiano sempre cercato per fare cose. Del resto, io non saprei da dove iniziare visto che abito in un’ex palude lontano da qualsiasi giro che conta.
Rispetto agli autori comici che pensano, anche giustamente in qualche caso, di meritare di emergere e si dispiacciono se ciò non accade, tu appari, invece, molto distaccato… è così?
Sarà che non ho mai sognato di fare lo scrittore o salire su un palco per far ridere la gente. Quest’ultima cosa specialmente sarebbe da curare in psichiatria. Mi ci sono trovato per caso per una concatenazione di eventi che partirono dal blog che aprii nel 2005 e che ebbe un buon seguito. Non è che non mi piaccia, ma io da piccolo volevo fare l’inventore tipo Grunf del Gruppo T.N.T. e se non fossi stato negato mi sarebbe piaciuto fare il musicista compositore. Oggi vorrei fare l’autore di giochi da tavolo. O forse vorrei solo starmene a casa con gli amici, davanti al camino, a trattenere gli ultimi scampoli dei nostri anni verdi.
E ridere?
A essere sinceri, la risata ha finito per stancarmi. Specie oggi che è una monomania. Vali quanto fai ridere. Ogni status su Facebook è una missione simpatia costante. Una eterna ansia da prestazione in cui tutti dobbiamo sfoggiare quanto siamo arguti, sagaci, figli di puttana, ma quel figlio di puttana che piace. E dietro questo florilegio di leggerezza e buonumore, pulsa un substrato d’invadenza, irruenza e quotidiano cannibalismo. Oggi se chiudono la pagina di qualcuno che ha uno stile che non ti piace, ti si liberano endorfine in automatico. Come se quello lì non stesse lavorando esattamente come te, che di certo non vai in ufficio per la gloria. Oggi si dà per scontato che io debba alzarmi la mattina e far ballare la scimmietta a gratis per alleggerire il risveglio al primo stronzo che mi legge, altrimenti questo mi commenta che – poverino – non lo faccio più ridere. Una roba da pazzi. Sono lontani gli anni ‘90 in cui prima di chiamare qualcuno all‘ora di cena ti chiedevi se eri di disturbo. Oggi fatico a entusiasmarmi anche di fronte a una comicità che trovo geniale. Sono nauseato. Ma non è un problema, sono contento di esserlo. Questo esubero di risate vaporizzate ovunque mi ha reso appetibile la prospettiva contraria: piangere, urlare, implorare l’infermiera, allungare la mano alla ricerca del flacone di Nembutal.
Parli continuamente di morte.
Perché è l’unico argomento possibile. Da bulimico di tutto quello che mi piace, nella morte non ci vedo niente di buono. Non ho mai inteso l’umorismo nero come qualcosa che sdrammatizzi la morte, ma al contrario come un modo per drammatizzarla. Specie oggi che, a suon di ricostruzioni cognitive, la morte te la raccontano come una startup fichissima, un carosello da social, un twist narrativo alla “Breaking Bad” che non vedi l’ora ti succeda. L’unica risata che mi interessa è sempre stata quella del condannato a morte, l’urlo isterico e disperato del mortale dinanzi al suo destino ultimo, al caos indeterministico che lo consuma. C’è qualcosa di peggio che vedere i nostri genitori sfasciarsi davanti ai nostri occhi? La risata per me è solo un modo per giocare violentemente con un simulacro della vita per sentire il rumore che fa mentre si spezza. Della comicità fatta solo per smuovere le coscienze su problemi quali razzismo, sessismo e i dentisti che non rilasciano la fattura non me ne può fregare di meno.
Immagino tu abbia visto la scenetta dei professori che deridono Giorgia Meloni.
Mi spiace deluderti, ma non ne so niente. Come t’ho detto, non sono aggiornato sulle cose che succedono fuori dal mio orticello. Mi rendo conto di suonare snob, ma è solo che io sono sempre stato concentrato e chiuso a riccio solo sulle cose che mi appassionano in quel dato momento. Pure a scuola, anche quando ero primo della classe, ho fatto una fatica doppia a studiare rispetto a chiunque altro, perché non c’era materia di cui me ne fregasse qualcosa e, dopo l’interrogazione, non vedevo l’ora di dimenticarmi ogni nozione appresa. Non ho imparato niente sui banchi di scuola, ho copiato tutte le volte che potevo copiare. Sono laureato in Psicologia ma non ho mai voluto fare lo psicologo, era solo un modo per prolungare l’adolescenza. Pensa che solo qualche giorno fa ho scoperto di aver sempre pronunciato Freud come “Fruà” perché lo pensavo francese. Bella battuta, vero? Non è mia, è del numero 33 di Dylan Dog.
Torniamo ancora al linguaggio. Come ti ho già detto, penso tu abbia un radar per riconoscere la stupidità nell’uso della lingua (e mentre ti scrivo mi accorgo che usare “radar” potrebbe far parte di questa stupidità). Come ti “nutri” di stupidità?
Non è la ricerca di stupidità che mi smuove. Anzi, difficilmente ho incontrato persone stupide nella vita. Esattamente come non ne ho incontrate di pazze. Spesso la stupidità e la pazzia sono il comodo travestimento di molti per essere delle teste di cazzo senza avere troppo gli occhi addosso.
Trovi che tutti i modi per esprimere emozioni siano stupidi? Come si evita di diventare anaffettivi?
Tempo fa mi trovavo su un campanile della ridente Imperia a urlare a squarciagola tutto il dolore del mio cuore trafitto dalle tenebre dinnanzi alla luna un po’ puttana. Accanto a me c’era un tipo che sussurrava nell’orecchio cose dolci alla sua ragazza. Beh, quel tizio sussurrando riusciva comunque a fare più casino di me. Oggi è tutto così berciato, esibito e scosciato da fare calma piatta. Negli anni ‘90 c’erano quei bei film di James Ivory, tipo “Quel che Resta del Giorno”, coi tavolinetti da fumo in mogano smaltato, il portauovo in porcellana e Anthony Hopkins tutto compito, in doppiopetto, silenzioso e attento, di profilo…
Ho letto della tua passione per la cultura pop e per la televisione. Cerchi materiale da deridere o c‘è qualcosa che ti piace realmente?
Assolutamente niente è da deridere. A me non piace ergermi su uno scranno ma starmene crassamente a guazzo nel percolato che racconto. E soprattutto mi piace giocare con le cose. Esercitare la fantasia senza giudizio, rivoltare i miei meandri, estroflettere ghiandole neoplastiche, far cozzare ingredienti apparentemente inconciliabili e vedere che storia sbrodola fuori. E tutte le mie passioni rientrano in qualche modo in quello che scrivo. Questo è quello che mi piace. Quanto mi piace tutto questo? Beh, fortunatamente sempre meno.