Il catalogo dei vivi«Io non sono malata. Io ho una malattia», ci racconta Francesca Mannocchi

Quando nella vita entra un accidente, ad esempio una diagnosi di sclerosi multipla, la linea del tempo si frattura e si capisce che è lo sguardo degli altri a fare il mondo. Per questo non bisogna pensare a chi non sta bene solo come a una vittima

Gian Mattia D'Alberto / LaPresse

“Bianco è il colore del danno“ racconta una parte di ciò che è capitato a Francesca Mannocchi da quando, una mattina a Palermo, s’è svegliata e metà del suo corpo le sembrava non rispondere più ai suoi ordini. Dopo mesi e decine di indagini arriva la diagnosi attesa ma temuta (perché non sapere cosa si ha può essere perfino più avvilente di saperlo): sclerosi multipla. E, a complicare ulteriormente la condizione, dopo poco arriva anche la scoperta che la sclerosi possa essere stata scatenata dalla recente gravidanza. Che fosse nel corpo, silente, da qualche parte e partorire abbia portato alla luce anche lei. Francesca Mannocchi è una giornalista, regista, spesso inviata in Medio Oriente e Nord Africa, ma qui è importante non usare il passato perché Mannocchi continua a viaggiare e a raccontare anche quelle aree del mondo perché, prima di tutto, ci tiene a non farsi schiacciare nella definizione di “malata” che gli altri vorrebbero affibbiarle.

Nelle pagine più dolorose del libro racconti la difficoltà di far comprendere la sofferenza e l’incomunicabilità che ti separa anche dagli altri pazienti come te.
Mi interrogo sulla lingua come barriera, sull’incomunicabilità, ogni giorno. Il mestiere che faccio mi ha aiutato – a ogni viaggio in Nord Africa o Medio Oriente provo a partire dai miei sbagli – a chiedermi quanto sia influenzata dai cliché e pregiudizi. Mi sono trovata, talvolta, a compiere gli stessi errori che contestavo ad altri. Cioè, involontariamente, a ingabbiarli in una definizione. Il terrorista, la vittima, il carnefice e così via. Lo stesso, posso dire, vale per una malattia. Lo sguardo degli altri ci determina così che il nostro corpo nello spazio si muove come un burattino guidato dai fili di altri, e quei fili, i fili del burattinaio sono le definizioni, le lenti con cui l’altro ci guarda.

Cosa comporta lo sguardo?
Ti diagnosticano un male, ergo diventi quel male, sei malato. Credo dovremmo ripartire da qui nel raccontare le malattie: sono Francesca, ho ricevuto una diagnosi di SM, non sono malata, ho una malattia. Questo è il principio dell’incomunicabilità per un malato. Viviamo in un tempo che ha bisogno di griglie definite, riluttante a convivere con la complessità e le sfumature. Perciò se sei portatore di un handicap diventi un “handicappato”, se ti è capitato di vedere due guerre in vita tua diventi un “inviato di guerra”, se fai un figlio sei prima di tutto “madre”, questo è sufficiente a definirti e rischia di corrispondere con la tua identità. Lo sguardo che è ansioso di definire rischia di determinare l’identità, incarcerandola. L’altro giorno stavo rileggendo delle interviste della pianista Martha Argerich. In una dice «Amo suonare il pianoforte. Ma non mi piace essere una pianista». Ha a che fare con questo, lo sguardo. E la stessa cosa accade con l’assenza di sguardo perché crea un vuoto d’identità e porta a chiederti: «Perché non sono vista? Perché non sono vista per quella che ritengo essere?». Credo che questo dovrebbe farci interrogare non solo sulle nostre relazioni familiari ma, più in generale, sul modo in cui tendiamo a guardare l’altro-da-noi, e l’altro può essere nostro figlio, nostra madre, i migranti che arrivano a Lampedusa o la persona bisognosa che non ha i soldi per la spesa. È lo sguardo che fa il mondo.

Come si passa, allora, dalla sensazione di incomunicabilità assoluta alla fiducia nei confronti del lettore? Che, almeno lui, possa comprendere?
Col lettore stringi un patto ideale di fiducia quando consegni il PDF dell’ultima revisione. Quando il “Bianco” è andato in stampa questa storia ha cessato di essere la mia. È diventata una storia in cui spero che le persone incontrino delle domande e piccoli frammenti di un paese ordinario, fatto di famiglie normali, e rapporti talvolta coperti di ruggine. Incomprensioni e paure innominate. Ognuno ha la sua e fatica a darle un nome: io a otto anni avevo una paura di morire che mi svegliava di notte, qualcuno avrà paura del vuoto, altri faticheranno ad accettare la perdita di una persona amata, altri saranno terrorizzati dall’idea di diventare poveri. Qualcun altro avrà timore di non essere amato abbastanza.

Il libro ruota attorno alla cura, perché con “cura”, in italiano, intendiamo sia la cura di una malattia che la cura di un’altra persona. È solo una coincidenza?
Mentre scrivevo il “Bianco” ho riletto uno splendido libro del filosofo Umberto Curi, “Le parole della cura. Medicina e filosofia“ (Raffaello Cortina editore). Curi riflette sull’ambivalenza della techne medica, che insieme cura e nuoce, il pharmakon che è un rimedio che intossica. La medicina è allo stesso tempo i successi che raggiunge e i potenziali effetti anomali. Quando mi hanno diagnosticato la SM ho cominciato, ad esempio, a pensare che la parola “cura”, nel mio caso fosse un termine improprio. La SM è una malattia cronica, al momento non si guarisce. Parlo, per me, di terapia. Non di cura, ma di contenimento. Le parole che usiamo disegnano la realtà, e se le usiamo in maniera impropria ci illudiamo di vivere realtà inesistenti.

Una cosa che hai raccontato in maniera molto efficace è il tempo delle terapie o il tempo delle sale d’attesa, un tempo a cui si pensa molto poco.
La cosa più difficile dopo la diagnosi è stata realizzare di non aver più controllo sul mio tempo. Sono passati quattro anni e non posso dire “missione compiuta”, fatico ancora ad accettarlo. Viviamo tempi di presunta invincibilità, pensiamo che tutto sia aggiustabile, e se non lo è, è almeno sostituibile. Tutto sembra essere in nostro potere, se non altro fino a un anno fa. Quando entra un accidente nella vita, nel mio caso la malattia, ma lo stesso vale per un lutto, un inciampo casuale, la linea del tempo si frattura. E la gestione del futuro dipende anche da fattori esterni. La convivenza con l’imprevisto squaderna il passato e il futuro, o meglio l’idea di futuro che avevamo prima. La persona cui viene diagnosticata una malattia lo pensa in ogni singola attesa nelle anticamere dei reparti ospedalieri, quando si siede nella farmacia territoriale in attesa delle medicine, quando i giorni della settimana assumono un calendario intimo, privato. E i nomi dei giorni cambiano. Oggi non è domenica, è il giorno che segue alla terapia, forse avrò effetti collaterali che non mi faranno alzare dal letto.

Ti fa rabbia?
Tanta, non come il primo giorno, però sì. Ma mi ha fatto fare i conti con la nostra hybris. Non siamo invincibili. Viviamo in corpi finiti. In corpi talvolta ostili. Gli ultimi mesi, per di più, ci stanno insegnando che il male sviluppa delle varianti, e che gridare “missione compiuta” è solo l’ennesimo tentativo di non affrontare la prova davvero difficile, cioè imparare a convivere con Caino.

Quindi anche il Covid è una frattura del tempo. Nonostante le vaccinazioni non torneremo come prima.
Non credo che torneremo quelli che eravamo. Ci illuderemo di farlo, nell’allucinazione collettiva di tornare alla vita-di-prima, ma la leggerezza dei nostri viaggi, o il divertimento, l’esperienza ludica di un bicchiere di vino con gli amici, nasconderà un ronzio, un’inquietudine. Penso che il post-Covid sarà lunghissimo e che la stessa espressione post-Covid sia un errore. Dovremmo fare lo sforzo individuale e collettivo di vivere in continuità con il Covid, non aspirando a una macchina del tempo che non esiste. Dovremmo, credo, come nelle esperienze di alcune malattie, ricordare che la Natura possa tendere contemporaneamente alla perfezione e contenere l’origine del suo danno. Eppure continuiamo a mal tollerare di parlare di corpi danneggiati, dei congedi, del nostro corpo come un corpo finito.

La pandemia ci ha ricordato anche un’altra cosa a cui tieni molto: il Servizio sanitario nazionale. (In questo mi ha ricordato, anche se mi rendo conto non c’entri molto, quel capolavoro che è stata “La linea verticale”).
Il Servizio sanitario nazionale è la cura del singolo attraverso la cura di tutti. Ci ripetiamo spesso, in caso di imprevisti, «finché non ti tocca direttamente non lo capisci». Questa frase, banale mi rendo conto, è particolarmente vera nel caso della Sanità pubblica. La diamo per scontata perché è sempre stata lì, almeno per quelli della nostra generazione. Invece dipende dallo sforzo di tutti, dall’impegno in cui ognuno si adopera affinché un diritto resti tale e non diventi un privilegio. In questi anni ho capito, sulla mia pelle, che corpo del malato e malattia sono stati monetizzati, che hanno un valore economico e quindi hanno un valore di scambio.

Che valore?
Tutto ha un valore economico sul catalogo dei vivi. Il valore di un’ora di risonanza magnetica genera due tipi di cittadini: il convenzionato e quello che può permettersi di pagare. La forbice – economica – tra i due, determina uno stato di minorità nel primo e di potere nell’altro. La monetizzazione della malattia genera, o meglio amplifica, le disuguaglianze. Questo tema non si può affrontare se pensiamo di curare la malattia solo con l’assegnazione di una terapia, non ci si cura solo clinicamente. Ci si cura davvero se ripensiamo la vita del malato e delle malattie come eventi inseriti nel complesso delle società. Ci si cura solo collettivamente.

Tu hai l’impressione che ci sia una volontà – non dico politica perché mi pare evidente non ci sia – intendo una volontà collettiva in questo senso?
Credo che, finché la malattia e i danni verranno gestiti in maniera individuale, non si creerà tessuto culturale su questi temi. L’anno pandemico ce l’ha ricordato, purtroppo: un cambiamento nella gestione dello spazio medico-paziente non può che essere un processo collettivo. Ti faccio un esempio banale, ma la malattia cronica, per certi aspetti, è un po’ simile al Covid, soprattutto nell’imprevedibilità che comporta. Quando la scienza non ha risposte, o meglio non le ha ancora, come nel caso della SM, il processo di apprendimento dei cambiamenti, delle nuove terapie, dei traguardi della ricerca, è un processo di apprendimento comune, un dialogo tra medico e paziente. Il rapporto medico-paziente non può essere visto ancora come siamo abituati a pensarlo: c’è un guaritore e un degente sul lettino, deve per forza diventare un rapporto negoziale.

Tu, partendo da Susan Sontag, ce l’hai anche con l’abuso della malattia come metafora.
Sì, è un tema che Sontag affronta in “Malattia come metafora” e nel libro intervista “Odio sentirmi una vittima”. Se tu pensi al malato solo come vittima, non lo rendi più un attore sociale, perché la vittima è subalterna a qualcuno che si prenda cura di lui o di lei. Mio zio, a marzo, è stato 17 giorni in terapia intensiva per Covid e mi sono resa conto, quando è uscito dall’ospedale ed è tornato a casa, che resista un tabù nel dire che sei stato contagiato, come se ci fosse, connaturato al fatto di essere temporaneamente danneggiato, uno stigma. Se pensi che pure persone che sono state contagiate da un fenomeno imprevedibile, che ha colpito l’intero pianeta, che potenzialmente ci espone tutti, subiscono il giudizio dello sguardo degli altri, torniamo al punto di partenza! Diventiamo il danno che abbiamo subito e contemporaneamente il danno è inammissibile, va scansato.

Volevo chiederti ancora una cosa sulla paura. Nel libro si parla molto d’insonnia e a me sembra che le due cose siano, in qualche modo, collegate. Che imparare a controllare l’una dia gli strumenti per controllare l’altra.
Io non ci provo neanche più a dominarla, l’insonnia.

Che poi è il vero segreto, no?
È il vero segreto. Quando apro gli occhi e vedo che sul cellulare sono le tre, le tre e cinque, le tre e dieci, io mi alzo direttamente ormai, non ci provo neanche più a riaddormentarmi. E ricordo sempre a mo’ di balsamo, una sequenza delle “Conseguenze dell’amore”, in cui Toni Servillo che interpreta Titta De Girolamo, il protagonista, dice: «Esiste nel mondo una specie di setta della quale fanno parte uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, razze e religioni: è la setta degli insonni, io ne faccio parte da dieci anni. Gli uomini non aderenti alla setta a volte dicono a quelli che ne fanno parte: “Se non riesci a dormire puoi sempre leggere, guardare la tv, studiare o fare qualsiasi altra cosa”. Questo genere di frasi irrita profondamente i componenti della setta degli insonni. Il motivo è molto semplice; chi soffre d’insonnia ha un’unica ossessione: addormentarsi». È più o meno così anche per me. Vorrei dormire fino alle nove, una domenica ogni tanto.

Visto che, come giornalista, sei stata spesso in contesti difficili, volevo chiederti se il tempo della malattia e il tempo di chi vive in certi luoghi siano simili. Nel senso che noi siamo abituati a poter pensare il futuro, mentre ci sono decine di posti sulla Terra in cui l’idea stessa di pensare un futuro è complicata, c’è solo da pensare al presente.
Il tempo della malattia è contemporaneamente un tempo sospeso e un tempo che contiene passato presente e futuro. Nel mio caso ad esempio, coincidono nella parola “ingravescente” che può definire la malattia, c’è dentro la patologia e il suo aggravarsi potenziale. C’è lo ieri che ti ricorda com’eri e un futuro diverso da come lo avevi immaginato. Ci penso spesso, negli ultimi anni, quando lavoro nei campi profughi o nei centri di detenzione, luoghi – o meglio non luoghi – in cui la sospensione del tempo coincide con la sospensione dell’identità. Il corpo è la nostra occasione di riflettere sul tempo. E nel modo in cui lo leggiamo c’è tutta la distanza tra l’io e l’io politico.