Nei libri di Teresa Ciabatti c’è una dimensione giocosa, nel senso più nobile del termine, che intriga e incuriosisce, la fiducia che il lettore capisca che l’io narrante non sia Ciabatti stessa, ma una sua versione manipolata, e al tempo stesso la speranza che il lettore non capisca bene dove si trovi il confine. O, addirittura, se esista davvero e se la realtà e la fantasia non sfumino continuamente uno nell’altra. La protagonista del suo nuovo libro, “Sembrava bellezza” (Mondadori) è una scrittrice che ha conosciuto il successo, ma che non riesce a trattenerlo. Eppure, man mano che scivola via, cresce in lei anche un desiderio di rivalsa nei confronti di chi, da ragazza, la trapassava con lo sguardo. L’opportunità per ragionare di questa vendetta gliela darà l’incontro con Federica, una vecchia compagna del liceo, e con la sorella maggiore di Federica, Livia, che da ragazze entrambe guardavano come una divinità – la semidea che aveva addosso tutte le attenzioni che a loro mancavano. La vicenda che scaturirà da questa ritrovata frequentazione ruota proprio attorno a quanto la nostra identità di adolescenti ci definisca, con le vittorie e con i traumi, o quanto l’identità sappia fare a meno della memoria.
È partito come uno scherzo, ma adesso vorrei chiedertelo davvero. Ti convince il meccanismo per cui si fanno continue interviste in occasione dell’uscita dei libri?
È estenuante perché è inevitabile che si finisca per dire sempre le stesse cose. Secondo me capita che già due settimane dopo l’uscita di un libro, uno non ne possa più di sé stesso.
Ma serve parlare del libro per venderlo?
Non ne ho idea, perché non è il mio mestiere. E io per questo genere di decisioni sono abbastanza rigorosa, mi affido a chi ne sa di più. Come anche, per esempio, sulla scelta della copertina. So che non ho gusto e allora mi affido. Per dirti, fosse stato per me, avrei scelto completamente un’altra copertina, molto cafona.
Che intendi con cafona?
Prendi “La più amata” nell’edizione tascabile: ha una copertina che per me è un capolavoro – rosa shocking con un bambolotto nudo in primo piano – bene, fa schifo a tutti. Invece quello sarebbe il mio ideale di copertina: le farei tutte rosa, super colorate, con persone non proprio in forma. Per “Sembrava bellezza” l’unica cosa che ho chiesto è stata: «Non mi mettete una modella in copertina». E poi è stato molto faticoso intenderci sul concetto di modella perché per me lo erano tutte, per loro no, e, insomma, alla fine mi sono fidata, cioè mi sono detta: «Fate voi». Spero sia un mio pregio quello di affidarmi alle persone, dopotutto ognuno ha il suo lavoro e la sua competenza e vale così anche per la comunicazione.
Però un po’ di rimpianto per quando i libri non dovevano essere spinti con la continua autopromozione immagino l’avrai.
È un confine molto sottile e non vorrei mancare di rispetto a chi lavora per il mio libro, però il mio sogno è quello di non rilasciare nessuna intervista.
Addirittura?
Non sopporto quello che dico: è come quando uno si riascolta la voce, no? E non ti parlo poi delle foto.
Parliamone, invece.
Tutto quello che è necessario alla comunicazione del libro, ma che deve avvenire attraverso il ritorno della propria immagine può essere molto traumatico. Per dirti delle foto, a casa mia non ci sono specchi. Ne ho dovuto mettere uno per mia figlia che ha 10 anni e aveva bisogno di uno specchio a figura intera, ma io non mi guardo quasi mai. E, se mi capita, mi guardo velocemente. Perciò nell’immagine che ho di me sono rimasta molto indietro. Quando mi compaiono le mie foto – giuro – il primo pensiero è «chi è questa signora?». Perciò il sogno – o forse dovrei dire l’ambizione – è quella di parlare solo attraverso i libri, e non avere un ritorno di parole o foto in cui uno non si riconosce mai e che finisce per essere straniante.
L’autopromozione è una condanna per molti.
Sì, però, posso dirti che li riconosci subito quelli che sono felici e quelli che sono infelici dell’autopromozione. Anche sui social, ci metti un secondo a vedere chi è celebrativo per ogni suo gesto e chi invece lo fa con più sofferenza.
Mi pare di capire che tu ti senta parte del secondo gruppo.
Io non mi ci sento adatta per tanti motivi, a cominciare proprio dall’immagine. Anche quando mi fotografano, dico sempre: «Voi lavorate la foto quanto volete, trasformatela, fatene pure un’altra persona». D’altra parte, uno scrive proprio perché sta bene nell’ombra.
Questo sdoppiamento l’ho ritrovato anche nel libro. Sembra che tu abbia molta fiducia che il lettore capisca il confine tra te e la protagonista, però poi ti diverta quando questo confine non viene capito. È anche un gioco?
Sì, assolutamente. Ho cominciato questo esperimento con i libri precedenti, in totale libertà, senza chiedermi come reagisse un pubblico, perché non ce l’avevo, allora, un pubblico. Mi sono sentita libera come con la Playstation, come quando dovevi costruirti un avatar e ti sceglievi i capelli, gli occhi, il corpo, e poi lo mandavi in altri mondi a combattere. Ecco, il principio è esattamente quello: c’era questo alter ego che andava a combattere al posto mio. Poi “La più amata” è stata un discorso diverso, perché lì mi sono appropriata di tutta la mia famiglia, e ho creato questo avatar che era anche una sorta di idealizzazione malefica. Ma quando mi è tornata indietro l’aggressività, quando rispondevano direttamente a quella idealizzazione lì che non ero io, soffrivo. E ho sofferto molto prima di capire che non me la potevo prendere con nessuno, perché era un gioco che avevo fatto da sola.
Ti sei pentita di averlo innescato?
Non ero adatta a giocare fino in fondo e non avevo capito cosa potesse accadere. Non ero assolutamente all’altezza, se vuoi, e, così, leggevo quello che dicevano di me e piangevo continuamente. Alla mia età. Senza capire, invece, che quel libro era già un gesto di aggressività enorme. Perciò, oggi, non sono così in disaccordo con quei lettori che si sono arrabbiati. Li comprendo.
Useresti di nuovo quella voce?
Mi sono spaventata e, a lungo, mi sono detta che non sarei mai più tornata a quella voce. Invece poi ho capito che valore avesse, anche per me. Perché a parte il divertimento, io ho dato a questo alter ego le parole e i gesti che ho quasi represso per tutta la vita. Perché, in realtà, io sono una che non sa reagire ai torti. E non sono una battagliera. Anzi. Se c’è una competizione, subito faccio un passo indietro e lascio fare.
Come per le copertine.
Se uno non ha mai lavorato con me e mi conosce per i libri si immagina chissà cosa, invece poi si trova davanti una specie di pecorella. So che non dovrei dirlo di me stessa, però, per esempio, sul lavoro non controllo niente, non entro in conflitto con nessuno. Invece tante volte, soprattutto da ragazzina, avrei potuto reagire diversamente e, nella mia mente, dicevo: «Avrei potuto reagire così» Ecco, tutte le reazioni mancate le ho date ai miei alter ego.
Magari è un modo anche per sublimare certe passioni.
A volte penso di sì, a volte mi pare che nella pagina tutta questa foga venga proprio esaurita e soddisfatta. Ma la verità è che non lo so. Sicuramente senza scrittura sarei stata una persona più frustrata e più rancorosa. In ogni caso non credo che sarei stata in grado di far male a qualcuno, anche solo per pigrizia.
C’è una cosa che volevo chiederti perché ci ho pensato molto durante la lettura del libro: perché l’adolescenza risulta così più antipatica rispetto all’infanzia?
Perché molti pensano, sbagliando, che i bambini siano privi di cattiveria e che, quando fanno qualcosa di male, sia così, per caso.
E quando perdono l’innocenza?
Per me scrittrice da sempre, sono colpevoli fin da piccolissimi. Insomma, da quando si può togliere il giocattolo all’altro bambino. Lì c’è già consapevolezza e intenzione. Io sono totalmente contro la rappresentazione dell’infanzia come momento della più grande innocenza. I bambini, anzi, sono seduttivi e sono manipolatori. E non lo dico prendendo le distanze. Lo dico perché sicuramente lo sarò stata anch’io, lo vedo che lo è stata mia figlia e lo è tuttora, tutti lo sono. Da adolescenti dà più fastidio. Perché agli adolescenti attribuisci l’intenzione, la consapevolezza che invece sei tentato di non attribuire a un bambino. Lo ripeto, sbagliando.
E tu ci credi nella possibilità che si possa educare realmente un bambino?
L’altro giorno stavo guardando una storia Instagram con Fedez e Leone Ferragni. Li seguo sempre i loro quadretti familiari. Sono meravigliosi. Passano tanto tempo insieme, si divertono, hanno un linguaggio loro, un codice tutto loro – a me fanno anche pensare che uno dovrebbe fare i figli presto, da giovani, perché io ho faticato molto a giocare con mia figlia piccola, l’ho avuta a trentasei anni, ma se l’avessi avuta a venticinque sarebbe stato diverso, ci avrei giocato di più come fanno loro. Mi piace che, per abituarlo all’arrivo della sorellina, gli abbiano preso sia i giocattoli da maschi che quelli che, di solito, vengono considerati da femmina come il passeggino o il bambolotto perché sanno che, in quel mondo, stanno dando un grande messaggio. L’altro giorno, c’era Fedez che con un’applicazione appariva con i capelli rosa, la coroncina da principessa e gli occhiali rosa. E Leone gli ha detto: «Ma papà tu non sei femmina!». E lui gli ha risposto: «Ma io mi piaccio così». E poi li ha messi anche a lui, rosa. E Leone era tutto contento e felice, e rideva. È un gesto dal valore formativo enorme: perché invece della lezione sul “siamo tutti uguali”, hai la forza dell’esempio.
Nel libro mi ha colpito molto come hai inserito la storia di Emanuela Orlandi. Soprattutto lo scarto tra cosa della storia di Emanuela Orlandi interessava agli adulti e ciò che colpiva gli adolescenti. Uno scarto enorme, come fossero due vicende diverse.
Per fortuna! Per fortuna esiste sempre una differenza di percezione tra i giovani e gli adulti. Uno scarto che non dipende dall’educazione, ma dal fatto che ognuno viva a suo modo la propria età e la propria personalità. E meno male che non esiste solo l’educazione della famiglia, ma anche tutta quella che arriva a contatto dal mondo “fuori”.
Oggi di mondo “fuori” ce n’è poco per via del Covid.
Questo l’ho già detto da un’altra parte – per tornare al discorso delle interviste che si ripetono, ma vabbè. Adesso la pandemia è un incubo, però per i contatti con l’esterno mia figlia usa anche TikTok. E come lo usa mi ha fatto impressione, perché mi sono accorta che ha un rapporto con il suo corpo che non le è derivato da me. Voglio dire che, attraverso TikTok, ha acquisito una consapevolezza del proprio corpo che per fortuna non è la mia. È una cosa meravigliosa! Perché io ho ripreso tutta la fatica, il corpo, i complessi e la negazione da mia madre. Invece mia figlia salta, balla, si confronta con altri corpi, si muove in un altro modo, fa movimenti che io nella vita non saprei fare e non avrei mai fatto. E quindi anche togliersi questa roba dell’eredità dei genitori è una bella conquista
Nel suo libro, Rocco Casalino racconta di quando viene fotografato a cena con Angela Merkel, e ammette di aver desiderato che i suoi compagni di classe di quando era ragazzino in Germania lo vedessero in compagnia della Cancelliera e rosicassero.
È esattamente il sentimento che ho dato alla mia protagonista: un senso di rivalsa. Soltanto che poi la mia protagonista, a un certo punto, si rende conto che la rivalsa è qualcosa di molto infantile. Perché chi se ne frega, no? Se ti vedono con la Merkel… Nel senso che quello che a me interessa è partire con questa voglia non solo di rivalsa, ma anche di vendetta, per poi rendersi conto che, dopo trent’anni, siamo tutti uguali: invecchiati, coi genitori morti, con esperienze più o meno tragiche, e tutti, ormai, con una familiarità con il dolore, a prescindere dallo stato sociale. E poi un’altra scoperta che mi interessava è che questi personaggi scoprissero che, durante l’adolescenza, ci si sente sempre unici nel non essere capiti e nel sentirsi messi da parte. Invece poi scopri che è capitato a tutti: non è un fatto di corpi, belli o brutti, è proprio la giovinezza che è così. E quando lo scopri quella sofferenza la ridimensioni: se è capitato a tutti e hanno sofferto tutti, con chi te la prendi?
Ed è possibile, anche da educatori, evitare quella sofferenza a qualcun altro?
No, è impossibile. E poi, secondo me, non c’è niente di peggio, cioè un genitore deve anche perdere questa mania di controllo e la presunzione di poter evitare il dolore o la sofferenza al figlio. O, anche, la vergogna. Per me la vergogna è stata fondamentale, io senza vergogna sarei stata meno consapevole e non sarei mai diventata una scrittrice. Una grande molla della mia identità è proprio la vergogna, perciò come posso augurarmi che mia figlia non provi vergogna? È fondamentale che accada.
I genitori del tuo libro si preoccupano più dei corpi che delle emozioni dei figli.
Però, per loro, sono due cose strettamente legate. Nel senso che quando invocano «Dio, fai che non abbia il corpo come il mio e che non sia grassa» lo fanno perché pensano che in quel caso la figlia non sarebbe amata o desiderata. Quindi non è una preoccupazione che finisce sul corpo, perché quel corpo poi comporta dolore e non amore.
Non avere successo è un modo per non diventare cattive persone?
Nel mestiere di scrittore sei destinato continuamente all’insuccesso e al fallimento. Ti può andare bene un libro, come è successo a me, ma è stato un momento effimero, sono durata una stagione. In questo libro ho dato alla protagonista proprio quel mio successo breve, perché ho avuto tre mesi in cui mi cercavano e mi volevano tutti, tre mesi e dopo niente.
Non deve essere piacevole.
All’inizio ci resti male, ma poi, se hai una certa età e sei abituata a non essere mai stata al centro di niente e a non aver mai vinto niente, torni semplicemente alla tua vita normale, non è un grande squilibrio. Sicuramente quando il successo uno lo ottiene da giovane è uno sconvolgimento mostruoso, infatti a me interessano moltissimo tutti gli ex bambini prodigio. Per lavoro intervisterei solo bambini prodigio, perché si resta bambino prodigio per sempre, anche quando il mondo non ti capisce più. Quando il successo ti arriva in tarda età non è che ti cambi più di tanto, per quanto io l’abbia inseguito mi ha affascinato pure il fatto che sia durato così poco.
Stai un po’ esagerando. Non sei mica scomparsa tipo i Jalisse, per citare qualcosa in tema “settimana di Sanremo”.
Ma è anche giusto che accada perché, dopo tre mesi, escono altri libri e quel posto lì lo deve per forza prendere, a rotazione, qualcun altro. Sono quei tre mesi lì l’eccezione, non la mia vita di adesso. Anzi, dopo la parentesi di successo, torni alla tua vita che, dopotutto, è pure quella che ti sei scelto. Ciò non significa che, se scrivo un libro, spero che quel libro non abbia successo. Però mi pare che l’insuccesso non mi scuota più. Poi, chissà, magari il libro va malissimo e tra sei mesi sono depressa. Non voglio neanche fare il fenomeno.
Allora ci risentiamo tra sei mesi
Oltre a non guardare le foto, in questi anni ho imparato anche a non guardare i commenti su Amazon o le classifiche (dove in genere non ci sono comunque). Ho imparato a non guardare niente.
Come quel personaggio di “Boris”, che diceva di aver scoperto che il segreto della felicità fosse smettere di leggere e chiudersi a riccio in sé stessi.
Esatto. Tanto ormai il libro è andato, non ti appartiene, è inutile che uno va li, ossessivamente, a guardare i commenti o i numeri. Basta, bisogna pensare al passo dopo, cioè, al libro successivo.