«L’uomo per purificarsi deve passare attraverso il fuoco del Signore. Egli è la fiamma divoratrice, che consuma il grasso delle primizie nella festa dell’equinozio, là fuori, davanti alla tenda, mentre si fa buio, e noi dentro sediamo timorosi e mangiamo dell’agnello, il cui sangue colora gli stipiti, perché passa l’Angelo sterminatore». Thomas Mann, “Giuseppe e i suoi fratelli”.
L’agnello, la vittima innocente: dalle “Bucoliche” di Virgilio alla Bibbia, al teatro greco, i riferimenti letterari al candore del sacrificio più gradito alla divinità testimoniano il profondo valore di un rito diffuso in tutte le civiltà antiche. Figura del Redentore, nella cultura cristiana l’agnello diventa simbolo di resurrezione, centro della Pasqua nelle celebrazioni liturgiche come nelle tradizioni popolari. E, in nome di questa tradizione, in Italia la festività pasquale vede da secoli l’agnello protagonista sulle tavole, in decine di preparazioni regionali diverse.
Un menu che si scontra con la nuova sensibilità ecologista e animalista: la levata di scudi contro la “strage degli innocenti” non coinvolge solo i vegetariani, ma anche chi consuma comunemente carne durante l’anno. Perché? «In questo momento sembra irrazionale uccidere un animale in nome di un’esigenza rituale, di un credo religioso; ci si indigna di fronte a un’uccisione che non è funzionale a nulla e non si riesce a concepire il fine ultimo di un momento rituale». Così Franco Cardini, scrittore, giornalista, saggista, professore Emerito dell’Istituto italiano di scienze umane alla Scuola normale superiore di Pisa, storico che, al di là dei titoli accademici, è da sempre capace di raccontare il passato al grande pubblico.
«È un po’ come per il toro nella corrida: gli uomini oggi non sono più in grado di capire la necessità di ritrovarsi in comunità a celebrare un rito, che è di per sé uno spreco, perché non offre un concreto riscontro immediato». Manca dunque la consapevolezza di una identità culturale legata al passato, così come si è perso completamente il valore simbolico della vittima: «L’agnello pasquale», spiega Cardini, «non rimanda più a nulla: non si conosce più l’arte che lo raffigura, né la musica che lo celebra, si presta attenzione solo al povero animale che soffre in nome di qualcosa che non si può toccare con mano. E lo si vede soffrire perché è sotto i riflettori. Paradossalmente si ignora la sofferenza di tanti bambini, cuccioli umani, che patiscono fame e malattie, ma non si vedono: possiamo voltare la testa da un’altra parte».
È il valore immediato dell’apparire a dominare nella società attuale: «Possiamo comprare costosi capi di vestiario, spendendo cifre sufficienti a sfamare un intero villaggio africano per settimane. In questo non c’è scandalo. Ma il sacrificio di un montone in pubblico, come viene ancora oggi richiesto nelle festività tradizionali dell’Islam, questo fa scandalo». Il simbolo come punto di riferimento per l’essere umano si è perso: «Abbiamo sradicato Dio dal centro della vita, e ci abbiamo messo l’uomo. Ma a patto che questo uomo non attribuisca un valore al cosmo, concepito come una grande macchina che gira senza senso: siamo liberi, dobbiamo essere liberi, ma la nostra libertà è quella dei marinai che, aggrappati a un relitto, vagano nel mare buio sotto un cielo senza stelle a guidarli. Oggi non solo non c’è più posto per il rito, ma neppure per la metafisica. Tutto deve essere centrato sull’uomo nel momento in cui vive, su quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”: una potenza che non è più quella militare, ampiamente condannata, ma quella del denaro. Tutto viene riassorbito dal sistema economico: basti pensare a cosa è diventato il Natale, la festa dei consumi assolutamente slegata dal Dio fatto uomo che dovrebbe esserne il centro. Ma il Natale è una porta lasciata socchiusa sull’aldilà. Si continua ad aver paura della morte e a sperare che dopo ci sia qualcosa: e arriva prima o poi il momento in cui, davanti alla morte propria o di una persona cara, si ritorna al pensiero arcaico».
Ugualmente la Pasqua è oggi una Pasqua senza resurrezione, e senza vittima: «Si prepara la colomba di farina, acqua e lievito, non si mangia più l’agnello di carne perché a scandalizzare è il sacrificio, la sofferenza in nome di qualcosa di “inutile”. I gesti rituali, spogliati di ogni valore, sembrano fatti in gloria del nulla; rimane solo la crudeltà. Ma nelle società contadine l’animale veniva ucciso con rispetto. Il sacrificio non dà piacere a chi lo compie, anzi, va celebrato con gesti e attitudine privi di gioia, ma carichi di rispetto. Chi compra asetticamente la carne in un supermercato non entrerebbe mai in un mattatoio, lo fa con indifferenza: in una società tradizionale può esserci crudeltà, mai indifferenza. E del resto i sacrificatori venivano addestrati perché avessero consapevolezza del loro mandato».
E nelle società tradizionali non solo il sacrificante, ma tutta la comunità è chiamata a partecipare alle celebrazioni. La collettività si fa parte attiva e, una volta di più, consapevole, della solennità. È questo un altro aspetto che viene a mancare nel nostro modo di vivere. «Assistiamo – spiega Cardini – a un rovesciamento all’interno della società occidentale: un tempo si lavorava da soli o in piccoli gruppi, per poi partecipare alle festività tutti insieme. Oggi Dio è morto: non c’è più necessità di ritrovarsi per glorificarlo, mentre il lavoro è diventato occasione di socialità. Si lavora insieme e si festeggia da soli, o con il proprio nucleo familiare. La festa è stata abolita e sostituita con il tempo libero: cambia la qualità; il tempo della festa era dedicato a qualcosa di altro da sé, alla comunità o alla divinità, era un tempo diverso da quello della quotidianità, in cui ci si vestiva con cura, si compivano ritualità precise, si mangiavano cibi speciali. Una liturgia non solo religiosa, ma fatta di abitudini secolari codificate. Oggi al contrario la festa è il giorno in cui ciascuno può fare quello che vuole, libero dai doveri del lavoro. Abbiamo rinunciato a scandire la nostra vita con momenti di spiritualità collettiva».
In una società dominata in gran parte dall’indifferenza, l’agnello continua comunque a far discutere e a far emergere le contraddizioni presenti nel nostro mondo. E per chi non rinuncia a cucinarlo, come per chi non tollera che venga ucciso, continua in fine dei conti a essere un simbolo, così come lo è stato all’alba della civiltà occidentale.
«Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno […]. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. […]. È la Pasqua del Signore!» (Esodo, 12, 5-12).